Buongiorno,
questo blog nasce dall’esigenza di archiviare e rendere disponibili informazioni, pensieri e idee (elaborate o semplicemente riportate), acquisite durante uno studio sulla filosofia zen. Considerandolo, più che una guida, una raccolta di nozioni che partendo dallo zen ne vanno oltre.
Durante il lavoro di ricerca, infatti, ho riscontrato moltissime analogie tra i concetti espressi dai vari insegnamenti spirituali e le principali scoperte in campo scientifico.
La nostra mente, invero, per snellire il lavoro di calcolo sull’enorme quantità di stimoli, provenienti sia dall’interno sia dall’esterno, sfrutta dei percorsi prestabiliti a basso dispendio energetico e di maggiore velocità di esecuzione. Tali scorciatoie, fondamentali per reagire nell’immediato alle varie situazioni, molto spesso, ci portano a conclusioni che vanno a discapito della precisione, dandoci una proiezione approssimativa e irrazionale di come in realtà le cose stanno.
I contenuti qui riportati, spero siano utili a dare uno stimolo al pensiero, lasciando ovviamente libera la facoltà di trarre le proprie conclusioni in maniera assolutamente indipendente e soggettiva.
“Un lungo viaggio, inizia sempre con il primo passo…..”
(proverbio zen).

mercoledì 23 novembre 2011

"Il libro della vita comincia con un uomo e una donna in un giardino e finisce con …..l'Apocalisse ". Oscar Wilde.

“Il Maestro e sua moglie erano ormai molto anziani. Un giorno sedevano a rimirare un meraviglioso tramonto abbracciati l’uno all’altra. Nei loro occhi c’erano la felicità e la serenità di chi aveva amato intensamente e conosciuto il vero grande amore, di chi aveva dato senza pretendere, di chi in un atto di totale fiducia, si era abbandonato nelle mani dell’altro. La moglie disse: ”Sono grata a Dio e alla Vita, per avermi guidato verso di te e per aver guidato te verso di me. Ti ho amato come me stessa e mai amore più grande vi è stato. Grazie per il tuo amore, mio caro, grazie per il tuo amore”. Il Maestro rispose: ”Quello che hai detto tu, amore mio, è ciò che volevo dire io a te. Ti amo e continuerò ad amarti anche dopo questi nostri corpi fisici”. Si guardarono intensamente negli occhi e si scambiarono un ultimo, intenso e dolce bacio, fondendosi in un reciproco sorriso. Inspirarono ed espirarono profondamente e lasciarono insieme questo palcoscenico che è il mondo. (parabola zen)



Volenti o nolenti, non possiamo negare il fatto che nel momento in cui si costruisce una coppia c'è la possibilità che ci siano delle crisi all'interno di questa. Sembra che ad un certo punto quelle che sembravano le qualità del partner, le stesse per cui si era fatta quella scelta, ora siano diventate il lato negativo del partner; si arriva a leggere proprio la caratteristica che sembrava positiva all'estremo opposto, considerandola insopportabile.

Durante la prima fase, quella dell’innamoramento, l’altro è idealizzato, appare come la persona che abbiamo sempre cercato. In realtà siamo in uno stadio profondamente narcisista, che ci porta a proiettare sulla persona che ci piace i nostri desideri e le nostre aspirazioni, vedendo soltanto quello che ci piace vedere.

I problemi di coppia cominciano quando dall’innamoramento si passa alla “fase di transizione”. In questa fase l’eccitamento di conoscere a fondo la nuova persona e la passione che caratterizza il rapporto diminuiscono o svaniscono, mentre i sentimenti divengono basati su una valutazione più realistica del partner. Si iniziano a percepire i difetti dell’altro, ed iniziano ad affiorare le differenze.

I conflitti incominciano ad emergere perché ciascuno cerca di forzare l’altro a corrispondere maggiormente ai propri desideri, mettendone alla prova la capacità di soddisfare le proprie esigenze: la disillusione è molto forte e il rapporto risulta notevolmente stressante.

 Inoltre, allo stress, si accompagna un maggiore livello di emotività, che in termini cognitivi può essere descritto come attivazione di idee irrazionali, “distorsioni cognitive”, modelli disfunzionali di elaborazione delle informazioni, con il rischio di un aumento di tensioni, conflitti e insoddisfazioni.

In questa nostra analisi cercheremo di procedere per gradi, scomponendo le varie fasi che caratterizzano un rapporto, alla ricerca dei fattori psicologici e cognitivi che ne formano le fondamenta.

COME SI SCEGLIE IL PARTNER?

Per capire meglio se, e quali, elementi di tipo sociale influiscono sulla scelta del partner si devono prendere in prestito alcuni concetti sociologici quali la struttura sociale (i tipi di gruppo, le associazioni, le istituzioni e i complessi di istituzioni che costituiscono le società), la funzione sociale e il controllo sociale (il modo in cui le strutture funzionano e si regolano dal punto di vista etico, religioso e morale) e il cambiamento sociale (l’orientamento della società ed i relativi problemi di sviluppo, stasi e declino).

Sulla base di analisi e osservazioni di tipo sociologico, si sono delineate le regole che caratterizzano l'azione del gruppo rispetto ad una scelta.

Esse consistono nel: 1)sviluppare un sistema comune di valori; 2)far sì che i membri del gruppo possano influenzarsi a vicenda; 3)arrivare ad una decisione comune; 4)risolvere le tensioni che si possono creare.

Di queste norme alcune sono esplicite, altre implicite e vengono trasmesse attraverso le regole di comunicazione e i giochi relazionali. In questa prospettiva si può arrivare ad una soddisfacente analogia (magari solo allusiva), anche nella scelta del partner.

Un altro elemento che caratterizza la scelta del partner potrebbe essere collegato alle remote vicende personali che hanno caratterizzato le esperienze infantili.

John Bowlby per primo ha sottolineato l'importanza dello schema di attaccamento che si struttura nel bambino e persiste nell'adulto. Bowlby ha identificato non solo il processo di costruzione dello stile di attaccamento, ma ha evidenziato la costruzione di un'attenzione o disattenzione selettiva che, nell'ottica della scelta del partner, viene ad assumere un ruolo molto importante.

Facendo riferimento a questo concetto, la scelta del partner è un gioco di "vuoti " e di "pieni”, cioè un alternarsi di attenzione selettiva ad alcune caratteristiche del partner e una disattenzione altrettanto selettiva per quegli elementi che potrebbero interferire nella stabilità della relazione. 

Altro elemento cardine, è l’icona della “rappresentazione familiare” radicata nell’individuo. L'influenza del mito familiare è maggiore o minore proprio in funzione del livello di differenziazione che la persona ha raggiunto rispetto alla famiglia di origine. La scelta del partner è infatti il mezzo principale di edificazione/ trasmissione del mito familiare.



La scelta del partner non comprende solo due persone ma sottintende una struttura di tipo triangolare: IO - TU - GLI ALTRI, intendendo per altri tutto ciò che ha caratterizzato la propria crescita e i processi evolutivi di separazione e individuazione. Quindi la scelta del partner, in apparenza libera e spontanea, acquista senso solo se riletta attraverso i miti individuali della coppia e della famiglia. Silvia Veggetti Finzi(1994) sottolinea come sia importante osservare quali sono i principali profili caratterizzanti delle coppie che si sono scelte per la costruzione di una famiglia.

Esistono cinque tipologie cardine:

"la moglie come madre"

"il marito come padre"

"la moglie come padre"

"il marito come madre"

"i coniugi come fratelli"

La moglie come madre : in questa tipologia l'uomo cerca nella moglie la madre, quella immaginaria, fortemente idealizzata e quindi ben poco corrispondente alla reale. In certi casi limite la figura della madre è talmente idealizzata che alcuni uomini non riescono comunque a trovarne un sostituto soddisfacente. Questa è l’ipotesi dello "scapolo a vita" che dice di non aver trovato mai la donna giusta, o che comunque, si rivolge sempre alle donne meno adatte al suo scopo. Incontrerà la bambina, l'avventuriera, la sposata, figure in genere lontane dall'idea del focolare domestico; anche nel caso in cui trovasse la donna materna farà di tutto per perderla vedendo in lei la minaccia della sostituzione della figura materna idealizzata. La figura della madre così mitizzata è colei che deve dare tutto senza chiedere nulla in cambio. Il risultato di questa coppia può anche essere funzionale, (come diceva Freud), il quale vedeva nella trasformazione della moglie in madre il fattore principale della stabilità coniugale. Al contrario alcune donne vi scorgono un grande pericolo soprattutto nella vita sessuale della coppia, relativa alla difficoltà del ruolo di donna-mamma.

Il marito come padre : come per l'uomo, la donna si trova a cercare nel partner la figura paterna, suo primo oggetto d'amore eterosessuale, ma con meno forza che nel caso precedente in quanto anche per la donna il primo attaccamento emotivo si è avuto con la madre. Ogni marito comunque si ritrova ad essere confrontato con il padre della partner e in particolare con modelli interiorizzati di responsabilità, sicurezza, autorità e potere. Anche in questo caso il confronto tra il padre e il partner si gioca in un mondo fantastico in cui l'estrema idealizzazione del padre produce un' esagerazione delle aspettative che difficilmente possono essere soddisfatte. Diventa quindi una sfida in cui la donna, condotta in un processo di infantilizzazione, incita il proprio compagno a superare il padre portandolo a cadere nel vortice della ricerca della perfezione.

La moglie come padre : ci sono uomini che attribuiscono alla propria moglie una funzione paterna. In questo caso di solito la moglie ha più anni del marito e riveste un ruolo sociale e culturale più elevato del marito, oppure ha una struttura di personalità rigida e normativa. A questa “donna-moglie-padre” vengono affidati compiti tipici della figura paterna: la sicurezza economica, la responsabilità della casa e della gestione familiare, l' amministrazione del reddito familiare.

Il marito come madre : in coppie in cui si stabilisce questa relazione di solito si incontrano una donna desiderosa di affetto con un uomo che ama svolgere il ruolo materno per un' invidia inconscia della figura materna. Si tratta della ricerca da parte delle donne della stessa soddisfazione di cui abbiamo parlato nella prima tipologia, solo che in questo caso, essendoci un sovvertimento dell'ordine prevalente nella società, può risultare dissonante ed essere additato come "strano".

I coniugi come fratelli : alcune coppie non volendosi impegnare in relazioni così impegnative come quelle descritte decidono di impegnarsi in una relazione più semplice, quale quella dell'amicizia e della fratellanza. In questo tipo di coppia non c'è neanche bisogno di convivere, spesso si dorme in stanze separate e non si condividono spazi comuni. La sessualità è di tipo infantile e non è l'elemento centrale: al contrario di solito si condivide più una passione esterna, che è l'elemento che mantiene unita la coppia. I motivi che spingono queste coppie ad unirsi sono svariati: si può pensare ad un conflitto edipico irrisolto o ad un forte investimento narcisistico su di sé.



PERCHE’ UNA STORIA FINISCE, UN AMORE MUORE, UN MATRIMONIO FALLISCE?



Si possono cercare molte spiegazioni e trovare molte griglie di lettura: ma è importante capire che è rilevante  (per apprendere dall’esperienza)  analizzare alcune ipotesi di ricerca dell’evento "separazione". Fra i molti approcci possibili, se ne propongo tre: uno d’ispirazione psicanalitica, l’altro più legato alla ricerca empirica, il terzo (infine) di tipo storico-evolutivo.



Approccio d'ispirazione psicanalitica.

Si può sottintendere l’idea che la disfunzionalità della coppia sia da collegare a “immaturità evolutiva”, o a vera e propria “patologia”, per il prevalere dei giochi inconsci nel rapporto; ecco brevemente la tipologia mutuata da questa ottica:

Il primo tipo di relazione è la cosiddetta "collusione narcisistica ". In questo rapporto l’amore è inteso prevalentemente in funzione simbiotica, "amore come essere uno ", e comporta abitualmente un partner schizoide. L’unione simbiotica è un rapporto sado-masochista (dove il più forte fagocita il più debole) e in cui va perduta l’identità e la "dualità" della coppia (l’essere noi). La relazione matura comporta invece una unione nella distinzione, il rispetto dell’altro come dissimile, l’accettazione della diversità, ecc.

Un secondo tipo di relazione è la cosiddetta "collusione orale ". Qui l’amore è concepito come "aver cura dell’altro". E’ un amore di tipo materno, che comporta un partner a struttura depressiva, auto-negazionista. L’amore maturo invece è caratterizzato da mutualità, reciprocità, essere contemporaneamente soggetto e oggetto nella relazione; non solo capacità di dare, ma anche di ricevere.

Un terzo tipo di relazione è la cosiddetta "collusione sadico-anale ". Qui l’amore è inteso come possesso totale ; l’oggetto dell’amore è considerato proprio dominio e tenuto continuamente sotto il proprio controllo. Questa relazione comporta un partner a struttura ossessiva. L’amore maturo invece è caratterizzato da libertà, autonomia, fiducia. Mutualità, interdipendenza reciproca di due soggetti indipendenti e liberi.

Un quarto tipo di relazione è la cosiddetta "collusione fallico-edipica " dove l’amore è vissuto soprattutto come autoaffermazione antagonista (virile) e il partner è vissuto sostanzialmente come rivale e luogo della propria affermazione. Questa relazione contempla un partner a struttura isterica. L’amore maturo è caratterizzato invece da solidarietà, compartecipazione, parità di possibilità di autorealizzazione al cento per cento. Senza eccessiva competitività.

 La mancata evoluzione verso un rapporto d’amore più maturo può condurre alla crisi di coppia.



Approccio legato alla ricerca empirica.

In questo approccio, è sottintesa l’idea che molto spesso le relazioni falliscano perché la scelta è stata fatta in base a quello che conta di più nell’immediato e non a quello che conta di più nel lungo periodo.

Sternberg , Professore di psicologia e pedagogia a Jale, ha teorizzato, suffragato da alcune sue recenti ricerche, un concetto di amore completo , sulla base di tre componenti fondamentali: “l’impegno” come componente cognitiva, “l’intimità” come componente emotiva e la “passione” come componente motivazionale dell’amore.



Da questa teoria scaturisce una tipologia collegata alla combinazione dei tre diversi fattori, dando luogo a otto possibili tipi di relazione.

La prima è "l’assenza di amore ": tutte e tre le componenti mancano; è la situazione della grande maggioranza delle nostre relazioni personali, casuali o funzionali.

Il secondo tipo è la "simpatia ". C’è solo l’intimità , si può parlare con una persona, parlare di noi, ci si riferisce ai sentimenti che si provano in una autentica amicizia e comporta cose come la vicinanza, il calore umano (ma non i sentimenti forti della passione e dell’impegno).

Il terzo tipo è "l’infatuazione ": quando c’è solo la passione . Quell’amore a prima vista che può nascere all’istante e svanire con la stessa rapidità. Vi interviene una intensa eccitazione fisiologica, ma senza intimità o impegno . La passione è come una droga, rapida a svilupparsi e rapida a spegnersi, brucia alla svelta e dopo un po’ non fa più l’effetto che si voleva: ci si abitua, arriva l’assuefazione.

"L’amore vuoto " è il quarto tipo di relazione, dove l’impegno è privo di intimità e di passione : tutto quello che rimane è l’impegno a restare insieme. Un rapporto stagnante che si osserva talora in certe coppie sposate da molti anni: un tempo c’era l’intimità, ma ormai non si parlano più; c’era la passione, ma anche quella si è spenta da un pezzo.

"L’amore romantico " è una combinazione di intimità e di passione (tipo Giulietta e Romeo). Più di una infatuazione, è vicinanza e simpatia, con l’aggiunta dell’attrazione fisica e dell’eccitazione, ma senza l’impegno, come un’avventura estiva che si sa che finisce.

"Amore fatuo " è quello che comporta la passione e l’impegno, ma senza intimità . E’ l’amore da fotoromanzo: i due si incontrano, dopo una settimana sono fidanzati, e dopo un mese si sposano. S’impegnano reciprocamente in base all’attrazione fisica., ma dato che l’intimità ha bisogno di tempo per svilupparsi, manca il nucleo emotivo su cui può reggersi l’impegno. E’ un tipo d’amore che di solito non dà buon esito nel lungo periodo.

"Sodalizio d’amore " è chiamato un rapporto d’intimità e impegno reciproco, ma senza passione . E’ come un’amicizia destinata a durare nel tempo. Quel tipo di amore che spesso si osserva nei matrimoni dove l’attrazione fisica è scomparsa.

Infine, quando tutti e tre gli elementi si combinano in una relazione, abbiamo quello che Sternberg chiama "amore perfetto o completo ". Raggiungere un perfetto amore, dice quest’autore, è come cercare di perdere un po’ di peso, difficile ma non impossibile; la cosa davvero ardua è mantenere il peso forma una volta che ci si è arrivati o tenere in vita un amore completo quando lo si è raggiunto. E’ un compito aperto, non una tappa raggiunta una volta per tutte.

In questa visione, l’indice più valido per predire la felicità di una relazione è dato dalla consonanza tra i sentimenti che si desiderano dall’altro e i sentimenti che si presuppongono dall’altro. La relazione tende a finir male se non c’è corrispondenza tra quello che si vuole dall’altro e quello che si pensa di riceverne: chiunque ha amato senza essere ricambiato altrettanto, sa quanto può essere frustrante.

 Il fatto è che sceglie troppo spesso in base a quello che conta di più nell’immediato. Ma quello che conta nel lungo periodo è diverso: i fattori che contano cambiano, cambiano le persone e cambiano le relazioni.

Nella ricerca fatta sui fattori che tendono a diventare più importanti con l’andare del tempo, si sono rilevati questi tre:

La disponibilità a cambiare in funzione delle esigenze dell’altro.

La disponibilità ad accettare le sue imperfezioni.

La comunanza di valori.



 Approccio storico-evolutivo.

Questo approccio, per capire la crisi di coppia, è stato sviluppato dal Prof. Mario Bertini dell’Università di Roma.

L’idea che guida questa analisi è che la coppia tradizionale spesso entra in crisi e può morire a motivo della forte contrattualità , statica e consumistica, che sta alla base del rapporto: un disegno di norme latenti che modellano il legame stesso.

Bertini fa notare che storicamente, superato il modello di tipo vittoriano dell’epoca precedente (rigidità dei ruoli e soggezione globale della donna), tra le due guerre, si è venuto affermando un modello apparentemente (e in parte obiettivamente) liberatorio , ma portante alla base, attraverso le varie ideologie post-freudiane e il consumismo capitalistico, una “contrattualità bloccante”

.E’ la cultura romantica dei fiori bianchi, dell’abito bianco di nozze, della fedeltà promessa, della felicità pattuita dello stare insieme... E’ come se la coppia dicesse: "Dopo tanto laborioso cammino, finalmente siamo approdati a questo meraviglioso giardino recintato dove tutto si può godere. Protetti dal nostro amore e dalla consistenza del “contratto”. Il compito che ci sta davanti è finalmente quello di godere “consumando” insieme tutto. Quello che ci viene chiesto è solo di rispettare le regole, di non uscire dal recinto, e di sacrificarsi l’uno per l’altro , sicuri che l’amore riuscirà a far superare ogni ostacolo".

E’ un atteggiamento di base dettato dal consumismo nella cultura odierna. E’ una visione statica ispirata all’ideologia del mercato, che fa del matrimonio (invece che una fase cruciale per lo sviluppo della persona), un punto di stasi , entro cui godere e consumare dei vantaggi acquisiti.

 Alla radice della logica conservatrice, si nasconde la paura come molla che blocca il progresso della persona. Paura di lasciarsi andare fluidamente nel gioco rischioso della libertà: paura di abbandonare le vecchie certezze, paura di affrontare lo sviluppo senza rischiarsi verso nuovi orizzonti creativi.

L’evoluzione, la realizzazione della persona, non si attua tuttavia nel vuoto: l’uomo cambia ed evolve in un rapporto di coesione con gli altri. Il bisogno di coesione è fondante lo sviluppo a patto che avvenga nella dimensione della mutualità . La mutualità può essere concepita come una relazione in cui due membri dipendono l’uno dall’altro per lo sviluppo delle rispettive potenzialità (interdipendenza). Questo principio ci fa capire che non è tanto nella misura in cui uno dà o si mortifica per l’altro, ma nella misura piuttosto in cui uno si "realizza" nel rapporto con l’altro. Il contrario della mutualità è la pretesa che l’altro cambi senza il rischio partecipativo del proprio cambiamento nel rapporto stesso.

La garanzia quindi dello sviluppo sembra fondarsi in relazioni di reciprocità, in cui al di fuori di ogni logica prevaricatrice, la realizzazione di sé passa attraverso la realizzazione dell’altro e viceversa. Queste sono due chiavi normative ideali che possono innovare profondamente il rapporto di coppia: accettazione della vita come processo continuo di innovazione nella speranza e convinzione che la crescita autentica non avviene se non nel rispetto della mutualità . Accettazione della vita non come processo statico di accrescimento, ma come processo dinamico di innovazione nella mutualità : questo schema di lettura ci consente di prendere coscienza di ciò che è morto nel modello tradizionale di relazione di coppia e di individuare le linee emergenti di un significativo salto evolutivo. E’ in questa luce che andranno rivisti i concetti stessi di fiducia, di sessualità, di ruolo, di uguaglianza nella coppia.

Concludendo, l’amore si ha quando si riconosce l’esistenza dell’altra persona come diversa da sé e dall’immagine “proiettata” creata dal soggetto stesso. Per poter vivere, l’amore deve essere costruito ed alimentato, perché non è fatto solo di sentimento, di sensazioni, ma anche di volontà e di impegno, è come una pianta che ogni giorno deve essere innaffiata per poter dare i suoi frutti. I sentimenti travolgenti dell’iniziale innamoramento diventano più tenui ma più profondi, l’amore adempie a quella promessa di eternità che l’innamoramento non può dare, in quanto il rapporto con l’amore non è più illusorio, ma reale. Mentre l’innamoramento è la fusione di momenti, l’amore è la sintesi di due storie di vita.




BIBLIOGRAFIA: “L’innamoramento” di Debora Pasca (Istituto Italiano di Sessuologia Scientifica e Psicologia. “Sulla coppia e l’innamoramento” – Psicologia dell’evoluzione- Dott. Cesare De Monti. “Come si sceglie il partner” Dott.ssa Anna Pitrone, Facoltà di Psicologia università “La Sapienza” Roma.

giovedì 10 novembre 2011

..."UNA RETE, NON E' NIENT'ALTRO CHE UNA SERIE DI BUCHI TENUTI INSIEME DA UN FILO"... Karl Wallenda.

Le relazioni spaziali tra gli oggetti che ci circondano nel nostro microcosmo quotidiano, nel macroambiente delle posizioni geografiche e le proprietà spaziali di tali oggetti (come forma e dimensione), sono un tema di ricerca privilegiato per quei settori delle scienze cognitive che mirano a rappresentare fedelmente le risorse delle facoltà umane.

Gran parte del nostro comportamento è descrivibile in termini spaziali: pianifichiamo azioni, cerchiamo di eseguirle secondo i nostri piani (eventualmente superando ostacoli imprevisti), ne controlliamo lo svolgimento attraverso un sofisticato sistema percettivo che, evidentemente, dispone di una componente non secondaria per la rappresentazione spaziale e il riconoscimento delle forme (possiamo parlare di quel che percepiamo come organizzato spazialmente, e riusciamo ad immaginare una situazione spaziale sulla base di una descrizione verbale).

Questi comportamenti, spesso, sono coadiuvati da ragionamenti e deduzioni: "Se il cucchiaio è nella tazza e la tazza è nella credenza, il cucchiaio è nella credenza".Se ci si chiede di accertare se il cucchiaio è effettivamente nella credenza, abbiamo bisogno di comprendere quello che ci viene chiesto, di progettare un’azione di verifica, di osservare una certa relazione spaziale, di produrre una certa conclusione, e, il contenuto di queste diverse competenze deve poter fluire dall’una all’altra attività mantenendosi (abbastanza) invariato.

Proveremo ora a chiarire questi concetti, prendendo come riferimento il bizzarro esempio fornitoci dalla singolare eccentricità dei “buchi”.

Questo paradosso si verifica quando la parte di un tutto possiede solo caratteristiche in negativo, ossia consiste in una non esistenza. Un buco non ha una realtà in se, non ha una componente fisica: è immateriale!  Appare come una sistematica illusione visiva, un’entità parassitaria, (non è nulla ma ha bisogno di un tutto per esistere).

I buchi sembrano appartenere alla nostra vita quotidiana almeno tanto quanto il groviera. Ma cosa sono? Come li si può pensare?, di cosa sono fatti? Molte delle operazioni che effettuiamo nello spazio hanno a che fare, in un modo o nell’altro, con buchi di tutti i tipi. Vi nascondiamo dentro delle cose, ve ne facciamo passare attraverso delle altre, li riempiamo, li svuotiamo, li usiamo per tenere fissi certi oggetti, e via dicendo. In molti casi, il concetto stesso che abbiamo di determinati oggetti (come i colapasta o lo stesso groviera) sembra evocare l’idea di qualcosa che è intrinsecamente bucato.

D’altro canto, i buchi, costituiscono un perfetto esempio di entità che i filosofi hanno cercato ( causa la loro inadeguata componente fisica) di espellere dall’elenco degli oggetti che fanno parte del mondo. Il “modus operandi” di questa strategia è stato quello di dimostrare che ogni descrizione del mondo che fa riferimento implicito o esplicito a queste entità ("C’è un buco in quel pezzo di formaggio") può essere parafrasata con pari potere espressivo da una descrizione che non vi fa riferimento ("Quel pezzo di formaggio è bucato"). Si tratta di un artifizio abbastanza comune, nelle sue linee generali, e nel caso dei buchi, sembra suggerirsi da solo.

Nel trattare questo settore delle rappresentazioni spaziali, abbiamo deciso di assegnare ai buchi una dignità metafisica. In questo naturalmente ci allineiamo sulle posizioni del senso comune, per cui i buchi sono entità individuali (per quanto strane) al pari dei tavoli e delle sedie. È un atteggiamento ben diverso da quello che possiamo assumere ad esempio nei confronti di essenze astratte come  i numeri, verso i quali, riusciamo ugualmente ad avanzare una posizione di realismo.

I buchi sembrano entrare nel nostro mondo con la massima naturalezza, perché, se esistono,ne possiedono anche le caratteristiche: sono localizzati spazio-temporalmente, nascono, crescono e muoiono. In breve: i buchi hanno un arco vitale come tutti gli individui che si rispettino.

Detto questo, la tesi su cui abbiamo lavorato è che i buchi siano oggetti immateriali, fatti di spazio, dotati di forma e dimensione, la cui proprietà costitutiva è la idoneità al riempimento. Dalla considerazione che i buchi sono oggetti immateriali segue che la loro identità è un fattore puramente visivo; di fatto, essa dipende dall’oggetto che ospita il buco: i buchi sono dei parassiti, per così dire, incapaci per natura di vita autonoma. Dal presupposto della costituzione spaziale dei buchi segue che essi posseggono una struttura descrivibile in termini di relazioni “parte-tutto”. Forma, dimensione e idoneità al riempimento, sono elementi che contribuiscono inoltre a fornire una classificazione dei buchi in tre categorie principali: incavi superficiali, fori, e cavità interne.

Non di secondaria importanza, risulta la constatazione che si ottiene seguendo la tesi del senso comune, secondo cui, queste tre classi formano tre specie di un unico genere.

È qui, infatti, che cominciano ad apparire i primi vantaggi derivati dell’approccio realista nei confronti di quello rigido filosofico finalizzato alla estromissione, di cui accennavamo sopra.

Senza entrare nei dettagli dell’argomentazione, diciamo semplicemente che è impossibile ottenere un risultato analogo se ci si riferisce all’oggetto che ospita il buco: non si può distinguere, in topologia elementare (quella branca della matematica che studia le proprietà delle figure e delle forme), un oggetto con un incavo da un oggetto senza incavo. La topologia consente di distinguere un oggetto forato (toro) da un oggetto senza fori (sfera), ma rimane completamente cieca dinnanzi a un oggetto caratterizzato da un incavo superficiale. D’altro canto, è del tutto elementare farlo accettando la capacità di “essere riempiti” come proprietà costitutiva dei buchi. Così facendo infatti, si sposta l’attenzione dall’oggetto ospite, al possibile oggetto riempiente: a quel corpo ideale che si adatta perfettamente all’ospite, in tutto e per tutto simile al buco, fatta eccezione per la sua materialità (e di conseguenza sulla sua impenetrabilità). Per così dire, ci si mette a pensare in negativo. Proprio le proprietà del riempimento e le sue interazioni con l’oggetto ospite diventano essenziali per la classificazione dei buchi.

David Lewis, uno dei più grandi pensatori del nostro tempo, (pioniere della teoria sulla pluralità dei mondi possibili), per spiegare l’ipotesi della sovrapposizione di stati della realtà, escogitò l’esempio di evanescenti cherubini perennemente danzanti in perfetta sovrapposizione sulla punta di uno spillo («Ad ogni istante, ciascuno occupa la stessa regione dell’altro; e tuttavia essi costituiscono due parti ben distinte del complessivo contenuto delle regioni da essi condivise»). Nel nostro caso, non occorre scomodare angeliche figure provenienti da mondi paralleli. È sufficiente pensare al nostro mondo, in cui anche ai buchi viene riconosciuta dignità individuale. Un oggetto può essere posizionato completamente all’interno di un buco, ed essere quindi totalmente connesso con esso, senza con ciò essere una sua parte. La regione occupata dall’oggetto è parte della regione occupata dal buco.

“I buchi sono immateriali, quindi compenetrabili!”.

Il filosofo John Locke aveva molto insistito su questo punto, facendone un principio metafisico da cui scaturisce immediatamente un criterio di identità per gli oggetti materiali: se l’oggetto x e l’oggetto y si trovano esattamente nella stessa regione di spazio allo stesso istante di tempo, allora x e y sono lo stesso oggetto (Saggio sull’Intelletto Umano). Tuttavia ecco subito un problema: il principio di Locke riguarda entità dello stesso tipo; ma entità di tipo diverso, possono coabitare nella stessa regione di spazio senza per questo sollevare particolari problematiche.

Non solo, non si può escludere che entità di tipo diverso possano essere localizzate nella stessa regione di spazio. Non si può neanche escludere che vi siano entità che sfuggono al principio di Locke; in quanto formulato avendo presente soprattutto la categoria degli oggetti materiali. Non si può cioè assumere che tutte le entità che sono localizzate nello spazio, occupino dello spazio, come se lo spazio fosse un grande parcheggio in cui ogni posto è riservato a un solo cliente.

A sostegno di questo, Shorter (1977) ha escogitato il caso di due nuvole intersecanti generate da due distinti “proiettori di nuvole”. Oppure, per comprendere ancora meglio, supponiamo di inserire un anello all’interno del buco in una ciambella. Come descrivere la relazione spaziale tra i due buchi? Certo non si dirà che il buco della ciambella lasci il suo posto a favore di quello nell’anello. Né diremo che il buco piccolo diventa parte del buco grande. Semplicemente, la regione occupata dal buco piccolo è parte della regione occupata dal buco grande: godono di una elegante sovrapposizione concettuale di stati.

In conclusione possiamo affermare che i buchi sono un esempio semplice e maneggevole di entità spaziali, più povere degli oggetti materiali e apprezzabilmente più ricche delle regioni di spazio.




Bibliografia: “I TRABOCCHETTI DELLA RAPPRESENTAZIONE SPAZIALE” Roberto Casati Centre National de la Recherche Scientifique Achille C. Varzi Department of Philosophy, Columbia University, New York, Pubblicato in “SISTEMI INTELLIGENTI” (1999), “LE STRUTTURE DELL’ORDINARIO” Achille C. Varzi  Department of Philosophy, Columbia University, New York, Pubblicato in Luigi Lombardi Vallauri (ed.), “LOGOS DELL’ESSERE, LOGOS DELLA NORMA, Bari: Editrice.

lunedì 17 ottobre 2011

"POICHE' IL TEMPO TRASCORRE NELLA MUTABILITA', NON PUO' ESSERE COETERNO ALL'ENTITA' IMMUTABILE"... S. Agostino.

Il Tempo, si muove in una sola direzione dando vita a un presente in costante cambiamento? Il passato esiste ancora? Se si, dov'è finito? Il futuro è già determinato, anche se non lo conosciamo?.
Può sembrare strano, ma la fisica classica ha sempre cercato di evitare queste domande, lasciando, piuttosto, l’arduo compito ai filosofi. Il motivo è probabilmente dato dalla schiacciante autorevolezza di Newton ed Einstein per il modo con cui hanno plasmato lo spazio, il tempo ed il moto.

Entrambi hanno costruito modelli dell'universo di straordinaria chiarezza, ma poi, una volta fatta la struttura, non si sono preoccupati eccessivamente delle fondamenta; e questo lascia spazio a potenziali confusioni.
Senza alcun dubbio, le loro teorie sono piene di grandi verità, ma entrambe danno il tempo come qualcosa di scontato: è un mattone al pari dello spazio, un elemento primario. Einstein lo ha addirittura fuso con lo spazio, per creare uno “spazio-tempo” a quattro dimensioni; infatti una delle grandi rivoluzioni della fisica moderna:“la relatività”, è completamente imperniata sul “Tempo”.


 Lo “spazio-tempo” è quindi un concetto fisico che combina le nostre classiche nozioni tradizionalmente distinte in “spazio” e in “tempo” in un solo concetto unico e omogeneo. Così come nella nostra visione classica dello spazio le sue tre dimensioni componenti (avanti-dietro, destra-sinistra e alto-basso) sono equivalenti e omogenee fra loro e relative all'osservatore (ciò che viene considerato avanti o dietro da un osservatore può essere considerato destra o sinistra da un altro osservatore disposto diversamente), la visione relativistica assimila anche la dimensione temporale (prima-dopo) alle tre dimensioni spaziali, rendendola percepibile in modo diverso da osservatori in condizioni differenti.

I punti dello “spazio-tempo” sono detti eventi, e ciascuno di essi, corrisponde ad un fenomeno che si verifica in una certa posizione spaziale e in un certo momento. Ogni evento è perciò individuato da quattro coordinate.

 Con l'assenza di un tempo assoluto, anche il concetto di “contemporaneità” è stato modificato dall'avvento della relatività: si può definire al suo posto “l’altrove assoluto”, cioè l'insieme degli eventi che non appartengono né al futuro né al passato, al di fuori cioè del “cono di luce”

.Il “cono di luce” è una delle strutture fondamentali dello spazio-tempo. Esso è l' insieme di due coni aperti alla base, uniti con continuità nel vertice e orientati in senso opposto. Un cono, segnala tutto ciò che è nel passato causale dell' evento,  nei vertici congiunti risiede il presente, mentre l' altro indica la regione dello spazio-tempo che è raggiungibile nel suo futuro. Ogni punto/evento ha il suo cono di luce e quindi, poiché in natura tutto evolve localmente dal passato al futuro, la storia temporale di ogni corpo è descritta da una linea (la linea-universo) che si estende sempre dal passato al futuro, rimanendo all' interno dei coni di luce. I bordi dei coni sono percorribili solo dalla luce, che quindi ne rappresenta i limiti.

Ecco un esempio. La stella Alfa  Centauri è posta a 4,3 anni luce dalla terra; ciò significa che, se invia al momento presente un raggio di luce nella nostra direzione, lo si vedrà solo fra 4,3 anni, e se noi inviamo un raggio di luce verso Alfa Centauri, essa attenderà 4,3 anni prima di vederlo. Se per ipotesi io fossi fidanzato con una ragazza di Alfa Centauri, e venissi a sapere che essa si sposerà tra 10 anni con un altro, io potrei raggiungere l'astro e mandare a monte le nozze, perché viaggiando alla velocità della luce ci metterei "solo" 4,3 anni; potrei farcela anche viaggiando su un razzo che si avvicini alla fatidica velocità “c”(in fisica si rappresenta in questo modo la velocità della luce) pur senza raggiungerla. Se invece lo sciagurato matrimonio avvenisse tra soli 4,3 anni, l'unico modo che avrei a disposizione per non perdere la morosa, è quello di puntare un raggio Laser super-collimato contro la prima stella del Centauro, ed usarlo per incenerire il mio rivale d'amore proprio davanti all'altare, perché solo la luce può percorrere 4,3 anni luce in 4,3 anni. Ma io, non potrei fare nulla se le nozze avvenissero solo tra 2 anni, perché neppure la luce sarebbe abbastanza veloce per coprire la distanza in così breve tempo, ed Einstein, mi proibisce di andare più svelto.

 Quell'evento é fuori dalla mia portata perché é anche fuori dalla portata della luce.



Per ogni evento dello spazio-tempo possiamo costruire un cono di luce. Ogni linea di universo che attraversa l'interno del cono senza mai fuoriuscirne è permessa ad oggetti dotati di massa; le linee di universo contenute interamente nella superficie laterale del cono sono permesse ai soli raggi di luce, ma proibite per noi; le linee di universo che si trovano al di fuori del cono sono proibite per tutti. Poiché (secondo postulato di Einstein) la velocità della luce è la stessa per ogni osservatore, tutti i coni di luce saranno identici e puntati nella stessa direzione. Il passato, il futuro e il cono di luce sono detti “invarianti dello spazio-tempo”, perché non cambiano qualunque sia il sistema di riferimento adottato.

Le difficoltà nella comprensione della “teoria della relatività” si manifestano nella formulazione di alcuni concetti che portano a conseguenze lontane dal senso comune, se non addirittura contraddittorie (da qui il nome "paradossi").

Alcuni paradossi, in realtà, non sono veramente tali dal punto di vista logico (ovvero non sono vere e proprie contraddizioni), ma sono soltanto delle previsioni fatte dalla teoria che risultano lontane dalla quotidiana esperienza della realtà, e quindi sono difficili da spiegare al di fuori di un ambito scientifico rigoroso.

Alcune delle osservazioni in questione sono:

Nessun corpo dotato di massa può assumere velocità uguali o superiori a “c” (velocità della luce). Un corpo può essere accelerato in tempo finito solo ad una frazione della velocità della luce minore di 1. I corpi senza massa materiale, come i fotoni stessi, viaggiano sin dalla loro emissione alla velocità della luce.

La contrazione delle lunghezze, in relazione alla velocità, non deve essere vista come se il metro variasse la sua dimensione o come se l'orologio segnasse un tempo diverso. Le misure infatti saranno differenti solo se effettuate da un altro osservatore in moto relativo: la lunghezza del proprio metro e la durata del proprio minuto è la stessa per tutti gli osservatori. C'è da specificare, inoltre, che il restringimento della lunghezza secondo la teoria della relatività ristretta avviene soltanto nella direzione di avanzamento, e sia lo scorrere più lento del tempo, sia il restringimento dello spazio, si verificano contemporaneamente.

La teoria, ammette questi effetti come conseguenza della peculiarità di “c” e del moto relativo, e quindi come conseguenza del nostro modo di guardare le cose. La lunghezza propria è la più grande fra tutte le lunghezze relative ai punti di vista, ma non per questo è più reale delle altre. Sarebbe come notare che più lontani siamo da un oggetto e più piccolo questo ci sembra: niente ci può dire se l'oggetto si rimpicciolisce veramente o se sia un effetto della distanza. Non ha quindi senso domandarsi se si tratti di un fenomeno reale o apparente. Inoltre la persona che ipoteticamente sperimentasse la contrazione dello spazio, non avrebbe la sensazione di sentirsi ristretta, in quanto il suo sistema di misurazione rimarrebbe lo stesso (Il suo metro sarebbe sempre lungo 1 metro, il centimetro uguale etc..).

A tale proposito, Einstein suggerì l'ormai famoso "paradosso dei gemelli" (anche se in realtà non si tratta di un "paradosso", in quanto viene spiegato completamente nel contesto dei due postulati della teoria della Relatività Ristretta). Ci sono due gemelli, inizialmente nello stesso posto e dotati di due orologi uguali, sincronizzati. Uno dei due gemelli rimane a Terra, mentre l'altro parte per un viaggio interstellare a bordo di un'astronave, la cui velocità, molto elevata, raggiunge l'80% di quella della luce. Al suo ritorno a Terra, l'orologio del gemello astronauta segna che son trascorsi 30 anni (di tempo "proprio") dalla partenza, mentre quello del suo gemello, rimasto a Terra, ne segnerà ben 50 dalla partenza dell'astronave.

Poiché nel veicolo spaziale, in movimento ad altissima velocità, tutti i fenomeni scorrono più lentamente, nell'ipotesi che gli orologi biologici (ad esempio, le pulsazioni ritmiche del cuore, i battiti del polso) si comportino come gli ordinari segnatempo, anche l'invecchiamento avverrà con un ritmo più lento. In altri termini, dopo avere fatto questo viaggio a velocità elevatissime, ritornando sulla Terra, l'astronauta ritroverà il fratello gemello più vecchio di lui di ben 20 anni!

 L'aspetto che forse può sembrare paradossale nella storia dei due gemelli è l'apparente simmetria del sistema: scegliendo l'astronave come sistema di riferimento, è il pianeta Terra che si allontana o si avvicina a velocità prossime a quelle della luce. Dunque perché alla fine del viaggio c'è una differenza tra i tempi misurati dai due gemelli? La soluzione è molto semplice: i due sistemi di riferimento: la Terra e l'astronave, non sono equivalenti. L'astronave deve infatti subire forti accelerazioni e decelerazioni rispetto alla Terra, che, in prima approssimazione possiamo assumere come un sistema di riferimento ``inerziale”(ovvero un sistema di riferimento che non subisce accelerazioni).

 Le cause di questo rallentamento, per dirla nel modo più semplice possibile, sono da imputare al fatto che, quando il gemello astronauta si volta a guardare la Terra, non la vede come è in quell’istante, bensì come era qualche tempo prima, allorché la luce ha lasciato il pianeta. Il tempo impiegato dalla luce per percorrere la distanza tra la Terra e l’astronave andrà regolarmente aumentando a mano a mano che la navicella si allontana nello spazio. Di conseguenza, egli vedrà gli eventi terrestri con sempre maggior ritardo, dal momento che la luce deve coprire una distanza via via crescente fra la Terra e l’astronave. Dopo un’ora di volo, (misurata dall’astronauta), la navicella si è allontanata 0,8 ore luce (48 minuti luce), quindi vede ciò che è accaduto sulla Terra 48 minuti prima, essendo questo il tempo (misurato nel sistema di riferimento terrestre) necessario perché la luce (che porta le immagini), possa raggiungerlo a questo punto del viaggio.



Proviamo a chiarire meglio le cose, (accantonando la nostra riluttanza per un attimo), e concentriamoci nel tentativo di paragonare la percezione del tempo a quella del colore, assumendo che il tempo sia solo un modo di percepire alcune cose che ci succedono attorno.
Come non esiste in realtà ciò che noi definiamo “colore” senza il nostro occhio per recepirlo, così un istante, un’ora, un giorno, sono indistinguibili senza gli avvenimenti che li caratterizzano; quindi, come riusciamo ad identificare lo “spazio” in un possibile ordine di oggetti materiali, così il “tempo” è identificabile come un possibile ordine di avvenimenti.
Einstein spiegava la soggettività del tempo con queste parole: “le esperienze di un individuo ci appaiono ordinate in una serie di singoli avvenimenti, che Noi ricordiamo apparire ordinati secondo il criterio di anteriore e posteriore. Esiste quindi per l’individuo un tempo suo proprio soggettivo che in se stesso non è misurabile”.


Il giorno è scandito dall'alternanza della luce e del buio; le stagioni registrano i cambiamenti ciclici della natura; l'arco della vita umana è scandito dai cambiamenti somatici, così come la storia di una civiltà è scandita da cambiamenti demografici, politici, economici.

La determinazione di un inizio e di una fine, di una discontinuità, sembra essere alla base della misurazione vera e propria non solo spaziale, ma anche temporale. L' inizio della giornata, la fine dell'anno, le unità di tempo, il calendario: punti fermi che interrompono la continuità, introducono il concetto di fine.

La concezione del tempo ha portato in epoca moderna, seguendo il filo della misurazione del tempo, alla ricerca di un tempo “oggettivo”, cioè non legato al punto di vista degli osservatori e, anche se la teoria della relatività ha modificato questa prospettiva nel senso che non si fa più riferimento ad un tempo assoluto, gli orologi hanno continuato a usare gli stessi principi, a usare i moti ciclici. L' oscillazione del pendolo si basa su un principio che sostanzialmente è simile all'oscillazione dell'atomo di cesio e gli strumenti moderni inseguono un tempo assoluto, sempre più preciso, basato su cicli perfettamente regolari che non introducano errori nella misurazione del tempo.



Cerchiamo di ancorare questi concetti, legati al tempo, al funzionamento del sistema nervoso; cioè tentiamo di ritrovare questi concetti all'interno della psicologia cognitiva.



Si pensa che esista una sorta di orologio biologico, situato nell'ipotalamo, che dà il tempo e mette in sincronia i bioritmi dell'organismo che vengono divisi in circadiano, ultradiano, infradiano, a seconda che abbiano una durata uguale, minore, maggiore del giorno. Infatti la maggior parte delle funzioni somatiche non debbono avere un ciclo regolare, perché altrimenti non riusciremmo ad adattarci alle situazioni diverse che si verificano nell'arco della giornata, nell'arco della vita. Il battito cardiaco, a esempio, non può essere regolare. Nel caso in cui sia richiesta un'attività maggiore, il battito cardiaco deve accelerare perché altrimenti questa attività non sarebbe sostenuta a livello di circolazione.



Il tempo, legato al movimento, generalmente scorre più rapido in attività. Fattori che influenzano il livello di attività sono le stagioni: il risveglio della primavera; il "seasonal affective disorder" che è una forma di depressione legata all'autunno, all'inverno, al buio in cui c'è una diminuzione dell'attivazione.

Con le stagioni siamo nel tempo come “cambiamento”.

Le stagioni registrano i cambiamenti ciclici della natura e regolano l'organizzazione dell'attività umana a essa collegata. L 'arco della vita è scandito da cambiamenti che danno la cronologia degli eventi. Il prima e il dopo, cioè la sequenza temporale sono generalmente basati sul cambiamento. Così una fotografia dell'album fotografico si riesce a collocare temporalmente in base al cambiamento, cioè in relazione a un prima e a un dopo, sulla base dei cambiamenti che sono avvenuti.

La mente umana, però, è riuscita a fermare l'attimo fuggente, cioè ha creato quello che noi chiamiamo il presente che sottrae, per una frazione di tempo più o meno lunga, la realtà al divenire continuo.

Come nasce il presente nella mente umana?

Si pensa che il presente sia legato alla rappresentazione della realtà. La memoria di lavoro del cervello fa una rappresentazione (di tipo visivo o uditivo) che è in grado di mantenere per un tempo più o meno lungo. Esempio della memoria di lavoro è una frase ascoltata distrattamente che continua a ruotare nella mente per un certo periodo di tempo. La memoria di lavoro fa una sorta di "analisi" e costruisce repliche della realtà. Però, la frammentazione che la mente opera non porta un'immagine frammentata, perché l'immagine precedente si fonde con quella successiva, dando la sensazione di un andamento continuo. Come avviene per i fotogrammi dei film abbiamo l'impressione di un continuo, mentre la nostra mente fa una serie di campionature della realtà.

In genere nei periodi di grande cambiamento la percezione del tempo è accelerata, mentre nelle situazioni monotone si ha la sensazione che il tempo non passi mai.

Il presente permette di identificare un prima e un dopo; il prima e il dopo non sono rilevanti solo per quanto riguarda l'aspetto delle immagini ma anche per il pensiero logico. Infatti la sequenza temporale è anche una simbologia logica in cui la causa precede l'effetto. La freccia del tempo va in una direzione.

L' ultima accezione di tempo, riguarda il tempo come “progressione” verso uno stato finale.

Anche se taluni eventi sono apparentemente reversibili, il divenire è irreversibile e molte volte il suo esito è anche prevedibile.

Il nostro sistema nervoso è in grado di rappresentare nel presente eventi presenti, percezioni, ciò che noi vediamo momento per momento; il passato con i ricordi, ed anche gli eventi futuri, cioè le nostre previsioni.

L'insieme delle rappresentazioni ci dà la storia dall'inizio e alla fine; ci fa conoscere talvolta la fine ancora prima che sia avvenuta e, dato che noi la vediamo, è come se questa fosse già presente. Invita a pensare a un immagine longitudinale con cui la persona riesce a vedere passato, presente e futuro in un continuum. Questa funzione sintetica che permette di aver presente tutto il corso della vita, potrebbe essere alla base di quella che viene chiamata "memoria autobiografica" che dà il senso di identità della persona.

Il senso d'identità di una persona permette di mantenere un continuum tra le fasi della vita, anche quando l'immagine fisica muta drammaticamente e poco resta dei materiali somatici di anni prima. Mentre il corpo diviene col trascorrere del tempo, l'identità può rimanere immutata almeno nei suoi tratti fondamentali.



Dallo studio delle emozioni, cioè all'effetto esercitato dalle emozioni sulla costruzione del tempo, è emerso che le varie emozioni hanno una espressione comportamentale, ossia si esprimono a livello di comportamento, in maniera completamente diversa. Alcune emozioni si collocano su un polo statico: in particolare il dolore e la tristezza, sul versante negativo e il piacere sul versante positivo. Mentre altre emozioni come la rabbia e la gioia si collocano sul polo dinamico.



Le immagini che troviamo più spesso collegate alla tristezza sono quelle della immobilità, del vuoto, della morte. Mentre nelle immagini legate alla gioia, troviamo l'attività, la socialità, la nascita. Alcune emozioni, quindi, sono connesse a rappresentazioni dinamiche, come la gioia, altre a rappresentazioni statiche, come le due già citate, invece il piacere, viene generalmente associato alla contemplazione e al riposo.

Le varie emozioni, in quanto legate a una diversa rapidità dell'azione, sembrano modificare sensibilmente la percezione del tempo: ad esempio il piacere, il dolore e la tristezza, come già detto, sono statiche sia in termini comportamentali che immaginativi, mentre la rabbia e la gioia sono dinamiche: nelle prime la percezione del tempo è in genere rallentata, nelle seconde è accelerata.

In conclusione, dato certo dell'esperienza è che tutto ciò che interessi i nostri sensi è materia, ovvero trasformazione di materia, visto che tutti gli oggetti materiali si modificano. Alcuni impiegano tempi brevi, altri in modo lento; ma tutti sono destinati a trasformarsi. La materia “è, e diviene”(ossia assume altra forma). L'ovvietà di questa affermazione non tragga in inganno: essa sottende una contraddizione, perché l'essere di un oggetto è certificato dalla sua identità (nel tempo), ovvero dal suo permanente esistere; il divenire, invece, presuppone la trasformazione, ovvero la diversità (della forma), per cui impone un "prima" e un "dopo", vale a dire un “intervallo  tempo". Il tempo "origina" dalla trasformazione della materia. La percezione del "tempo" è la presa di coscienza che la realtà di cui siamo parte si è materialmente modificata.



Bibliografia: maggior parte delle informazioni riportate sono state prese da siti liberi di divulgazione scientifica sotto licenza “Creative Commons CC-BY-SA” pertanto il contenuto può essere liberamente riutilizzato e adattato in quanto ritenuto di libero dominio.
"La percezione del tempo" Dr.ssa Stefania Borgo - coordinatore Dr.ssa Maria Antonia Ferrante- Dr.ssa Antonella Giordani. L’immagine del cono di luce è presa da “solo-lost.net”.

domenica 28 agosto 2011

"L'ERRORE NASCE SEMPRE DALLA TENDENZA DELL'UOMO A DEDURRE LA CAUSA DALLA CONSEGUENZA"... Arthur Schopenhauer.


“Karma” è una parola sanscrita che significa “azione, attività”, attività in tutti i

suoi sviluppi e in tutte le sue conseguenze, ed è la causa  del destino degli esseri viventi.

La legge del karma è appunto la legge di causa ed effetto : dall’azione è

inevitabilmente provocata una reazione, che è strettamente in relazione con la prima.

Esprime la probabilità che un certo evento sia la diretta conseguenza di una data azione o di un dato comportamento, e, sempre in campo probabilistico, ne stabilisce il valore in positivo o in negativo.

Però se confrontiamo il piano mistico con quello fisico, possiamo notare delle differenze interpretative.

Sul piano mistico, che risulta fondamentale per la maggior parte delle religioni esistenti, l’interpretazione è sempre stata molto schematica, come se l’effetto fosse indissolubilmente legato alla causa scatenante. In pratica la visione è del tipo uno a uno, dove l’effetto generato è identico e contrario alla causa. Se applichiamo questa visione alla vita, si crea un’immagine mentale legata al concetto di “retto comportamento”, la quale ci porta come conclusione al pensare di essere puniti dai nostri peccati, e non per i nostri peccati.



 La filosofia dell'età moderna approfondì il concetto di “causa” facendolo coincidere con quello di “legge”, dove il rapporto causa-effetto è rappresentato da grandezze misurabili matematicamente (Keplero, Galilei, Cartesio).

Da questo punto nasce la Fisica classica, che da Isaac Newton a Pierre Simon Laplace assume il determinismo e il meccanicismo come ineliminabili dalla trattazione dei fenomeni naturali. Secondo questa corrente di pensiero nulla in natura avviene per caso, ma tutto accade seguendo precise leggi dettate da ragione e necessità. Il determinismo esclude qualsiasi forma di casualità nelle cose ed individua una spiegazione di tipo fisico per tutti i fenomeni, riconducendola alla catena delle relazioni causa-effetto. La principale conseguenza è che date delle condizioni iniziali tutto quel che accadrà in futuro è predeterminato in modo inequivocabile.

 Fino al XIX secolo il concetto di causa è stato coniugato al singolare, in una visione che non teneva conto della pluralità causale tipica dei sistemi causali complessi. L'introduzione del concetto di complessità ha imposto di associare al concetto di causa quello di serie causale, nella quale più cause concorrono a formare un effetto.

 Un sistema complesso è un sistema in cui gli elementi subiscono continue modifiche singolarmente prevedibili, ma del quale non è possibile, o è molto difficile, prevedere uno stato futuro.

Maggiore è la quantità e la varietà delle relazioni fra gli elementi di un sistema, maggiore è la sua complessità; a condizione che le relazioni fra gli elementi siano di tipo non-lineare. Un problema è lineare se lo si può scomporre in una somma di sotto-problemi indipendenti tra loro. Quando, invece, i vari componenti/aspetti di un problema interagiscono gli uni con gli altri così da rendere impossibile la loro separazione per risolvere il problema “a blocchi”, allora si parla di non-linearità.

Un'altra caratteristica di un sistema complesso è che può produrre un comportamento emergente, cioè un comportamento complesso non prevedibile e non desumibile dalla semplice sommatoria degli elementi che compongono il sistema. Un sistema non-lineare è tanto più complesso quanto maggiori parametri sono necessari per la sua descrizione.
Dunque la complessità di un sistema non è una sua proprietà intrinseca, ma si riferisce sempre ad una sua descrizione; e dipende, quindi, sia dal modello utilizzato nella descrizione, sia dalle variabili prese in considerazione.


 È importante sottolineare che, la condizione per l’insorgere di “comportamenti emergenti”, è la non-linearità delle interazioni tra le componenti di un sistema e non la numerosità di queste. Per questo motivo nel sistema vivente umano la coscienza, il linguaggio o la capacità auto-riflessiva sono ritenute proprietà emergenti perché non spiegabili dalla semplice interazione tra neuroni. L’esistenza di modelli all’interno del cervello permette, per così dire, di saggiare l’ambiente nella propria testa. Mentre si pensa, si sta scegliendo di esplorare una “rappresentazione sostitutiva”, cioè un “modello” dell’ambiente.

“Il compito di una mente è di produrre futuro”, come disse una volta Paul Valéry. Una mente è (ridotta all’essenziale) un sistema capace di anticipazione, un generatore di aspettative. Essa scava nel presente alla ricerca di indizi, che poi perfeziona con l’aiuto dei materiali preservati dal passato, trasformandoli in anticipazioni del futuro. Anticipazioni conquistate al prezzo di un duro lavoro e che serviranno ad agire nel modo più razionale possibile.

La più grande risorsa dell’uomo è commettere errori. Attenzione: li possiamo chiamare “errori” solo quando siamo riusciti ad individuarli come tali. Un errore evitato in sede di progettazione mentale è il più economico, e quindi, quello da ricercare. Un piano abortito consuma pochissima energia, e relativamente poco tempo. Importante è fare errori il prima possibile, preferibilmente quando il lavoro è ancora al livello della disamina mentale o dopo un minimo di verifiche esterne. Diventa comodo allora “far morire i modelli”, saper scartare l‘idea riconoscendovi un errore prima di metterla in pratica, operando esclusivamente all’interno del cervello.

Ecco quindi una prima discrepanza tra la visione mistico-filosofica e l’esperienza fisica.

Questo meccanismo è chiamato feed-back o, in italiano, retroazione.

È molto usato nella robotica, nella teoria dell’informazione e in cibernetica bio-adattativa.   La retroazione è la capacità dei sistemi dinamici di tenere conto dei risultati del sistema per modificare le caratteristiche del sistema stesso.

In un controllo in retroazione il valore della variabile in uscita dal sistema viene letto dal controllore che agisce modificando l'ingresso del sistema, al fine di correggere gli errori.

 Però siamo sempre nella logica di un mondo tridimensionale, mentre dobbiamo aprire la nostra mente e fare un ulteriore passo avanti.

Per fare questo è necessario muoverci nei meandri della fisica quantistica, passando prima per la teoria della relatività di Albert Einstein.

Un presupposto fondamentale della meccanica newtoniana è l’esistenza di una scala universale dei tempi, che è la stessa per tutti gli osservatori. Nella sua teoria della relatività ristretta, Einstein abbandonò la nozione che, due eventi che appaiono simultanei a un osservatore, appaiono simultanei a tutti gli osservatori. Per approfondire il significato del tempo, Einstein affrontò dapprima la definizione di eventi simultanei e puntualizzò il fatto che la simultaneità non si conserva nel passaggio da un riferimento ad un altro in moto rispetto al primo.

Non basta dire che devo osservare contemporaneamente due eventi per decidere che essi sono avvenuti nello stesso istante; la luce di due stelle che arriva sulla Terra porta generalmente con sé immagini di stelle lontane nello spazio e anche nel tempo, con il risultato che possiamo vedere contemporaneamente una stella di 100 anni fa ed una di 10000 anni fa.

Einstein escogitò il seguente esperimento concettuale per illustrare che le misure degli intervalli di tempo dipendono dal sistema di riferimento in cui vengono eseguite.

Un vagone si muove con velocità uniforme, e due fulmini ne colpiscono gli estremi, lasciando tracce sul vagone e sul terreno. Un osservatore viene posto al centro del vagone, in moto con esso; mentre un altro viene posto sulla banchina della stazione sempre a metà strada dal luogo di impatto dei due fulmini.

Entrambi gli osservatori hanno il compito di registrare i segnali luminosi dei fulmini.

I due segnali luminosi raggiungono l’osservatore sulla banchina della stazione nello stesso istante, perciò, conclude che gli eventi sono avvenuti simultaneamente. Consideriamo adesso gli stessi eventi visti dall’osservatore posto sul vagone, a metà strada tra il capo e la coda. Per questo osservatore, in movimento assieme al vagone, il risultato della misurazione sarà che la testa del vagone è stata colpita dal fulmine prima della coda. Motivazione di questo risultato è che la luce che trasporta l’informazione, muovendosi in direzione opposta rispetto a quella del treno, impiega meno tempo rispetto a quella proveniente dalla coda per raggiungere l’osservatore.

 Si potrebbe ripetere il ragionamento con un altro ipotetico treno che viaggia in direzione opposta: questa volta gli osservatori in esso concluderebbero che l’ordine di caduta dei fulmini sarebbe inverso.

In conclusione, non solo la simultaneità non viene mantenuta, ma è possibile concepire sistemi di riferimento in cui l’ordine di successione degli eventi si capovolge.

Possiamo pensare allora a riferimenti in cui sta avvenendo o è già avvenuto il nostro futuro? Significa che i legami di causa-effetto non sono più validi?

Questo, non è affatto vero: tutto quello che si è detto sinora è riferito a eventi completamente indipendenti.. La teoria relativistica di Einstein non solo salva, ma anzi rafforza il significato del rapporto di causa-effetto..

Se due eventi A e B sono legati da un fatto fisico in modo tale che A sia la causa e B l'effetto, l'evento A precederà l'evento B in ogni riferimento, anche se con diversa separazione spaziale.

La simultaneità è un concetto relativo, ma la relazione di causa-effetto non lo è!

Prendiamo per modello due fatti completamente scollegati tra loro, ad esempio, dalla Terra si calcola che una esplosione sul Sole e una sulla stella Vega sono avvenute a distanza di un anno.



Come dati disponibili in riferimento Terrestre abbiamo:

Separazione temporale tra i due eventi = 1 anno;

Separazione spaziale tra i due eventi = 25 anni-luce;

In questo caso nessuno dei due eventi può influenzare l'altro perché nessuna informazione è in grado di percorrere lo spazio che li separa in un tempo pari alla loro separazione temporale: l'ordine temporale di due eventi scollegati può essere sovvertito a seconda dei diversi riferimenti adottati.

Il collegamento (non necessariamente di causa-effetto) tra due eventi è quindi legato alla possibilità (teorica) che una qualunque informazione, viaggiando alla velocità della luce, possa percorrere lo spazio che li separa in un tempo almeno uguale alla loro separazione temporale.
Se questo accade uno dei due eventi precederà sempre l'altro in qualsiasi riferimento, anche con diverse separazioni spaziali e temporali.


In definitiva si può affermare che la relazione di causa-effetto non dipende dal sistema di riferimento.

Alla luce di queste permesse possiamo ora arrivare a parlare della Fisica quantistica, per fare questo però, sarà necessario accantonare per un attimo tutte le certezze che abbiamo con fatica appreso nel corso della nostra vita, e allargare la nostra conoscenza lasciando la mente aperta alla contemplazione di molteplici possibilità.

Le grandi rivoluzioni della scienza sono sempre legate a sconvolgimenti in campo filosofico e sociale. Le ripercussioni della Fisica quantistica a livello filosofico stanno arrivando ora, ma sono ancora largamente limitate rispetto a quello che accadrà nei prossimi anni.



Nel parlare di causa-effetto, bisogna tenere conto che nella Fisica quantistica non esiste una realtà oggettiva della materia, ma solo una realtà creata di volta in volta dalle osservazioni dell’uomo, e che la dinamiche fondamentali tra le particelle sono governate dal “principio di indeterminazione” di Heisemberg, della “simmetria temporale” di Bell e dalla “sincronicità” di Jung e Pauli. E’ inoltre possibile che la materia possa “comunicare a distanza”, che possa “scaturire dal nulla”, e che lo stato oggettivo della materia sia caratterizzato da una “sovrapposizione di più stati” tutti ugualmente possibili.

Vediamo ora nel dettaglio ognuno di questi fondamentali.

In Fisica quantistica, l’incertezza è qualcosa di preciso e definito. Ci sono coppie di parametri, conosciute come variabili coniugate, per le quali è impossibile avere un valore precisamente determinato per ogni membro della coppia e nello stesso istante.

L’incertezza sulla posizione e il momento costituisce l’esempio per eccellenza.

Descritto per la prima volta nel 1927 da Werner Heisemberg, nel suo “principio di indeterminazione”, implica che nessuna entità subatomica può avere nello stesso istante sia un momento determinato (in pratica una determinata velocità) sia una posizione precisamente determinata. Ciò non è dovuto a una qualche mancanza di accuratezza nelle misurazioni, ma anzi, significa che questa imprecisione è una qualità stessa della materia. L’elettrone non ha una posizione e un momento perché egli stesso non sa dove si trova e dove sta andando. Quindi, sebbene sia possibile avvicinarsi il più possibile con le misurazioni, concluderemo che più preciso risulta uno dei parametri, meno accurato è l’altro. Ciò è da imputare alla caratteristica tipica delle particelle di comportarsi sia come un onda, sia come un corpuscolo (dualità onda-particella).

Questa duplice natura delle particelle è stata scoperta e confermata durante un esperimento chiamato “della doppia fenditura”: esperimento nel quale è racchiuso il mistero centrale della meccanica quantistica.

La dinamica dell’ esperimento è quella di proiettare un fascio di elettroni su uno schermo sul quale sono stati ritagliati due fori. Gli elettroni dopo aver attraversato i due fori colpiscono una lastra fotografica lasciandone una traccia. L’incredibile risultato, di questo apparentemente semplice esperimento, è che gli elettroni passano contemporaneamente attraverso i due fori comportandosi come un onda, per poi finire contro la lastra fotografica lascando l’impronta della loro singolarità. Le entità quantistiche dimostrano di essere capaci  di passare attraverso le due fenditure nello stesso istante, non solo, hanno anche una sorta di consapevolezza, cosicché ognuna di esse può scegliere di dare un contributo alla figura d’interferenza sulla lastra fotografica cadendo nel punto corretto alla creazione della figura, anziché alla sua distruzione.

Ma c’è dell’altro. Se dovessimo pensare che tutto ciò sia poco credibile, e dovessimo porre un rilevatore all’altezza di ognuno dei due fori, quella condotta misteriosa scomparirebbe all’istante. A quel punto vedremo davvero ogni singola particella (fotone o elettrone) passare per uno solo dei due fori, e otterremmo una figura sulla lastra fotografica completamente diversa dalla precedente. Le entità quantistiche sembrano sapere di essere osservate, e si dimostrano capaci di modificare i loro comportamenti di conseguenza (ancora una volta, vale la pena di sottolineare che tutto ciò è stato realmente comprovato dai fatti sperimentali).



 Nel 1951 John Stewart Bell dimostrò l’esistenza della famosa simmetria CPT (Charge Parity and Time reversal symmetry), anche nota come simmetria del tempo, secondo la quale si osserva, nel microcosmo, una perfetta simmetria di tutti i processi relativamente al verso del tempo.

La simmetria CPT è una ulteriore conferma sperimentale ed empirica del fatto che le leggi del microcosmo sono governate dalla duplice soluzione dell’energia, dal duplice verso del tempo e dalla duplice causalità.

Al contrario, per quanto riguarda il livello macroscopico, in un universo in espansione come il nostro, l’entropia può solo aumentare e che per questo motivo le leggi della fisica classica mostrano un’asimmetria temporale a favore dell’entropia.

Questa ipotesi aveva dimostrato che l'entropia è la freccia del tempo”, nel senso che essa obbliga gli eventi fisici a muoversi dal passato verso il futuro.

Nel macrocosmo l’esperienza sensibile e comune del tempo è quindi quella di eventi che fluiscono incessantemente dal passato verso il futuro, con cause collocate nel passato.

Questa contrapposizione microcosmo/macrocosmo suggerisce l’esistenza di un duplice livello di descrizione della realtà:

- quello della fisica classica (macrocosmo), nel quale il tempo fluisce dal passato verso il futuro e la causalità è di tipo meccanico;

- quello della fisica quantistica (microcosmo), nel quale il tempo è simmetrico ed unitario e la causalità può fluire in entrambi i versi: dal passato verso il futuro e dal futuro verso il passato.





La teoria della relatività ristretta di Einstein mostra che l’energia positiva può tendere alla velocità della luce, ma non può mai superarla. Ad esempio, per percorrere la distanza che separa la Terra dalla Luna (300.000 Km) un segnale luminoso impiega 1 secondo, mentre per percorrere la distanza che separa la Terra dal Sole (150.000.0000 Km) impiega poco più di 8 minuti.

Nel 1980 Alain Aspect realizzò il primo esperimento EPR (Einstein-Podolski Rosen) che ha di fatto dimostrato la possibilità di trasmettere istantaneamente informazione indipendentemente dalla distanza spaziale. L’esperimento EPR, proposto nel 1935 da Einstein, consisteva nel dividere due elettroni che condividevano lo stesso stato quantico (ossia la stessa orbita attorno ad un nucleo atomico), allontanarli ed effettuare quindi la misura del loro spin.

Lo spin o “trottola” è quel fenomeno per cui un elettrone gira su se stesso, come un pallone sull’asse di un giocoliere. Può girare in senso orario o in senso antiorario e, come la punta di un trapano, se gira in senso orario va in su (entra), mentre se gira in senso antiorario va in giù (esce).

In base al principio di esclusione di Pauli, che vige senza alcun limite di spazio e di tempo, se il primo elettrone della coppia inverte il proprio spin, automaticamente e istantaneamente anche il secondo elettrone deve necessariamente invertire il proprio spin.

In altre parole, una particella si deve adeguare istantaneamente all’altra anche se viene portata ai confini dell’Universo.

Nel 1980, due elettroni accoppiati furono separati a Roma presso l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (I.N.F.N.) e uno dei due venne trasportato (confinato in un contenitore magnetico, con complicatissimi accorgimenti) al C.E.R.N. (Centro Europeo di Ricerche Nucleari) di Ginevra. A Ginevra fu poi cambiato lo spin dell’elettrone e istantaneamente anche lo spin dell’elettrone rimasto a Roma si girò, come atteso in base al principio di esclusione di Pauli.

Einstein tuttavia, pur avendo teorizzato questo esperimento, non aveva previsto però che il cambiamento dello spin potesse avvenire a distanza (in questo caso 1.000 km) e istantaneamente.

L’esperimento EPR è stato replicato nei laboratori di tutto il mondo e mostra che quando si separano due elettroni accoppiati, indipendentemente dalla loro distanza, la misura sull’uno corrisponde esattamente e istantaneamente alla misura sull’altro. E’ come se il secondo elettrone “conosca” che cosa stia accadendo al primo indipendentemente dalla distanza che li separa.



Altro interessante paradosso che si incontra in Fisica quantistica e quello della “sovrapposizione di stati”. Si immagini di avere davanti a sé due scatole che contengano ognuna un guanto di uno stesso paio. Ora, ancora prima di guardare dentro le scatole, un qualunque "osservatore" avrà la certezza che ciascuna di esse conterrà un guanto con un verso ben definito; la scatola di destra ad esempio potrà contenere un guanto destro, la scatola di sinistra un guanto sinistro e viceversa. Ma, se anziché usare guanti normali usassimo un paio di "guanti quantistici", il loro verso nelle rispettive scatole, verrebbe definito solo nel momento in cui si guardasse dentro una di esse. Nella teoria quantistica (e del formalismo matematico che ne stabilisce le regole) infatti, è l’atto di guardare ("osservare") all’interno di una delle due scatole che conferisce realtà alla coppia dei guanti. Prima che un osservatore guardi dentro una delle scatole i guanti si trovano in uno stato indefinito, sovrapposto, ove le caratteristiche (nella fattispecie il verso destro e sinistro) si confondono in una strana entità "destra-sinistra".

Alla luce di queste premesse possiamo ora affrontare l’esperimento “mentale” proposto da Erwin Schrodinger allo scopo di dimostrare come quella che era l’interpretazione classica della meccanica quantistica risulta essere incompleta quando deve descrivere sistemi fisici in cui il livello subatomico interagisce con il livello macroscopico.

 All’interno di una scatola d’acciaio Schrodinger immagina di porre un gatto e una piccola quantità di sostanza radioattiva, la cui disintegrazione viene registrata da parte di un contatore Geiger il quale a sua volta mette in azione un martello che infrange una fialetta di veleno in forma gassosa. Ora volendo seguire alla lettera la teoria quantistica, sostiene Schrodinger, passato un certo periodo di tempo dall’istante in cui il gatto è stato messo all’interno della scatola e ha avuto inizio l’esperimento, ci si trova nella situazione in cui il momento della disintegrazione della sostanza radioattiva non può essere calcolato con esattezza (risultando tale momento sovrapposizione di più tempi) e quindi ci si trova nella impossibilità oggettiva di assegnare un reale stato di vita o di morte al gatto. Anzi ci si trova in una strana situazione ove la fiala di veleno risulta potenzialmente allo stesso tempo rotta e non rotta, con un gatto contemporaneamente vivo (fialetta non rotta) e morto (fialetta rotta).



Dopo un certo periodo di tempo, quindi, il gatto ha la stessa probabilità di essere morto quanto l'atomo di essere decaduto. Visto che fino al momento dell'osservazione l'atomo esiste nei due stati sovrapposti, il gatto resta sia vivo sia morto fino a quando non si apre la scatola, ossia non si compie un'osservazione.

In pratica, una particella elementare possiede la capacità di collocarsi in diverse posizioni contemporaneamente, e anche di esser dotata di quantità d'energia diverse al medesimo istante. Per quanto "assurde" al nostro modo di pensare, queste strane proprietà della materia e dell'energia corrispondono alla realtà del mondo dei quanti. Le particelle subatomiche sono "delocalizzate" nello spazio e nel moto, per cui - fra un esperimento e l'altro - si comportano come se stessero in più luoghi contemporaneamente. Ma, paradosso nel paradosso, ogni qualvolta una particella delocalizzata venga osservata con un esperimento che - per propria natura - modifica indispensabilmente il livello energetico, la quantità di moto e pure la posizione della particella in esame, essa verrà certamente trovata nella posizione cercata e dotata di quel determinato livello energetico.

Ritornando al caso del gatto, fino a quando l'atomo non si disintegra (e questo evento dipende unicamente dalla natura dell'atomo radioattivo scelto, quindi è un evento unicamente probabilistico), emettendo la particella che aziona il marchingegno letale, il gatto è sicuramente vivo. Viceversa, al decadimento dell'atomo, il gatto va certamente incontro alla morte. Pertanto, se non si apre il contenitore in cui alloggiano il gatto e il marchingegno letale, non si potrà determinare quale destino abbia avuto il gatto: di conseguenza, il gatto può - al contempo - esser considerato sia vivo sia morto. Solo aprendo il contenitore (quindi, compiendo l'esperimento) si reperirà un gatto vivo o morto. Il paradosso, solo apparente, sta proprio qui: finché non si compie l'osservazione, il gatto può esser descritto indifferentemente come vivo o come morto, in quanto è soltanto l'osservazione diretta che, alterando i parametri basali del sistema, attribuirà al gatto (al sistema medesimo) uno stato determinato e "coerente" con la nostra consueta realtà.





BIBLIOGRAFIA: “Il bizzarro mondo dei quanti” Springer edizioni di Silvia Arroyo Camejo, “Q come quanto” macroedizioni di John Gribbin, “introduzione al pensiero complesso” Sperling & kupfer, “Principi di fisica” di Jewett & Serway quarta edizioni, “Open Fisica” copyleft Ludovica Battista. Molte delle informazioni e degli esempi riportati nel testo sono stati liberamente presi da “siti web” di divulgazione scientifica e quindi considerati di libero dominio.