Buongiorno,
questo blog nasce dall’esigenza di archiviare e rendere disponibili informazioni, pensieri e idee (elaborate o semplicemente riportate), acquisite durante uno studio sulla filosofia zen. Considerandolo, più che una guida, una raccolta di nozioni che partendo dallo zen ne vanno oltre.
Durante il lavoro di ricerca, infatti, ho riscontrato moltissime analogie tra i concetti espressi dai vari insegnamenti spirituali e le principali scoperte in campo scientifico.
La nostra mente, invero, per snellire il lavoro di calcolo sull’enorme quantità di stimoli, provenienti sia dall’interno sia dall’esterno, sfrutta dei percorsi prestabiliti a basso dispendio energetico e di maggiore velocità di esecuzione. Tali scorciatoie, fondamentali per reagire nell’immediato alle varie situazioni, molto spesso, ci portano a conclusioni che vanno a discapito della precisione, dandoci una proiezione approssimativa e irrazionale di come in realtà le cose stanno.
I contenuti qui riportati, spero siano utili a dare uno stimolo al pensiero, lasciando ovviamente libera la facoltà di trarre le proprie conclusioni in maniera assolutamente indipendente e soggettiva.
“Un lungo viaggio, inizia sempre con il primo passo…..”
(proverbio zen).

domenica 28 agosto 2011

"L'ERRORE NASCE SEMPRE DALLA TENDENZA DELL'UOMO A DEDURRE LA CAUSA DALLA CONSEGUENZA"... Arthur Schopenhauer.


“Karma” è una parola sanscrita che significa “azione, attività”, attività in tutti i

suoi sviluppi e in tutte le sue conseguenze, ed è la causa  del destino degli esseri viventi.

La legge del karma è appunto la legge di causa ed effetto : dall’azione è

inevitabilmente provocata una reazione, che è strettamente in relazione con la prima.

Esprime la probabilità che un certo evento sia la diretta conseguenza di una data azione o di un dato comportamento, e, sempre in campo probabilistico, ne stabilisce il valore in positivo o in negativo.

Però se confrontiamo il piano mistico con quello fisico, possiamo notare delle differenze interpretative.

Sul piano mistico, che risulta fondamentale per la maggior parte delle religioni esistenti, l’interpretazione è sempre stata molto schematica, come se l’effetto fosse indissolubilmente legato alla causa scatenante. In pratica la visione è del tipo uno a uno, dove l’effetto generato è identico e contrario alla causa. Se applichiamo questa visione alla vita, si crea un’immagine mentale legata al concetto di “retto comportamento”, la quale ci porta come conclusione al pensare di essere puniti dai nostri peccati, e non per i nostri peccati.



 La filosofia dell'età moderna approfondì il concetto di “causa” facendolo coincidere con quello di “legge”, dove il rapporto causa-effetto è rappresentato da grandezze misurabili matematicamente (Keplero, Galilei, Cartesio).

Da questo punto nasce la Fisica classica, che da Isaac Newton a Pierre Simon Laplace assume il determinismo e il meccanicismo come ineliminabili dalla trattazione dei fenomeni naturali. Secondo questa corrente di pensiero nulla in natura avviene per caso, ma tutto accade seguendo precise leggi dettate da ragione e necessità. Il determinismo esclude qualsiasi forma di casualità nelle cose ed individua una spiegazione di tipo fisico per tutti i fenomeni, riconducendola alla catena delle relazioni causa-effetto. La principale conseguenza è che date delle condizioni iniziali tutto quel che accadrà in futuro è predeterminato in modo inequivocabile.

 Fino al XIX secolo il concetto di causa è stato coniugato al singolare, in una visione che non teneva conto della pluralità causale tipica dei sistemi causali complessi. L'introduzione del concetto di complessità ha imposto di associare al concetto di causa quello di serie causale, nella quale più cause concorrono a formare un effetto.

 Un sistema complesso è un sistema in cui gli elementi subiscono continue modifiche singolarmente prevedibili, ma del quale non è possibile, o è molto difficile, prevedere uno stato futuro.

Maggiore è la quantità e la varietà delle relazioni fra gli elementi di un sistema, maggiore è la sua complessità; a condizione che le relazioni fra gli elementi siano di tipo non-lineare. Un problema è lineare se lo si può scomporre in una somma di sotto-problemi indipendenti tra loro. Quando, invece, i vari componenti/aspetti di un problema interagiscono gli uni con gli altri così da rendere impossibile la loro separazione per risolvere il problema “a blocchi”, allora si parla di non-linearità.

Un'altra caratteristica di un sistema complesso è che può produrre un comportamento emergente, cioè un comportamento complesso non prevedibile e non desumibile dalla semplice sommatoria degli elementi che compongono il sistema. Un sistema non-lineare è tanto più complesso quanto maggiori parametri sono necessari per la sua descrizione.
Dunque la complessità di un sistema non è una sua proprietà intrinseca, ma si riferisce sempre ad una sua descrizione; e dipende, quindi, sia dal modello utilizzato nella descrizione, sia dalle variabili prese in considerazione.


 È importante sottolineare che, la condizione per l’insorgere di “comportamenti emergenti”, è la non-linearità delle interazioni tra le componenti di un sistema e non la numerosità di queste. Per questo motivo nel sistema vivente umano la coscienza, il linguaggio o la capacità auto-riflessiva sono ritenute proprietà emergenti perché non spiegabili dalla semplice interazione tra neuroni. L’esistenza di modelli all’interno del cervello permette, per così dire, di saggiare l’ambiente nella propria testa. Mentre si pensa, si sta scegliendo di esplorare una “rappresentazione sostitutiva”, cioè un “modello” dell’ambiente.

“Il compito di una mente è di produrre futuro”, come disse una volta Paul Valéry. Una mente è (ridotta all’essenziale) un sistema capace di anticipazione, un generatore di aspettative. Essa scava nel presente alla ricerca di indizi, che poi perfeziona con l’aiuto dei materiali preservati dal passato, trasformandoli in anticipazioni del futuro. Anticipazioni conquistate al prezzo di un duro lavoro e che serviranno ad agire nel modo più razionale possibile.

La più grande risorsa dell’uomo è commettere errori. Attenzione: li possiamo chiamare “errori” solo quando siamo riusciti ad individuarli come tali. Un errore evitato in sede di progettazione mentale è il più economico, e quindi, quello da ricercare. Un piano abortito consuma pochissima energia, e relativamente poco tempo. Importante è fare errori il prima possibile, preferibilmente quando il lavoro è ancora al livello della disamina mentale o dopo un minimo di verifiche esterne. Diventa comodo allora “far morire i modelli”, saper scartare l‘idea riconoscendovi un errore prima di metterla in pratica, operando esclusivamente all’interno del cervello.

Ecco quindi una prima discrepanza tra la visione mistico-filosofica e l’esperienza fisica.

Questo meccanismo è chiamato feed-back o, in italiano, retroazione.

È molto usato nella robotica, nella teoria dell’informazione e in cibernetica bio-adattativa.   La retroazione è la capacità dei sistemi dinamici di tenere conto dei risultati del sistema per modificare le caratteristiche del sistema stesso.

In un controllo in retroazione il valore della variabile in uscita dal sistema viene letto dal controllore che agisce modificando l'ingresso del sistema, al fine di correggere gli errori.

 Però siamo sempre nella logica di un mondo tridimensionale, mentre dobbiamo aprire la nostra mente e fare un ulteriore passo avanti.

Per fare questo è necessario muoverci nei meandri della fisica quantistica, passando prima per la teoria della relatività di Albert Einstein.

Un presupposto fondamentale della meccanica newtoniana è l’esistenza di una scala universale dei tempi, che è la stessa per tutti gli osservatori. Nella sua teoria della relatività ristretta, Einstein abbandonò la nozione che, due eventi che appaiono simultanei a un osservatore, appaiono simultanei a tutti gli osservatori. Per approfondire il significato del tempo, Einstein affrontò dapprima la definizione di eventi simultanei e puntualizzò il fatto che la simultaneità non si conserva nel passaggio da un riferimento ad un altro in moto rispetto al primo.

Non basta dire che devo osservare contemporaneamente due eventi per decidere che essi sono avvenuti nello stesso istante; la luce di due stelle che arriva sulla Terra porta generalmente con sé immagini di stelle lontane nello spazio e anche nel tempo, con il risultato che possiamo vedere contemporaneamente una stella di 100 anni fa ed una di 10000 anni fa.

Einstein escogitò il seguente esperimento concettuale per illustrare che le misure degli intervalli di tempo dipendono dal sistema di riferimento in cui vengono eseguite.

Un vagone si muove con velocità uniforme, e due fulmini ne colpiscono gli estremi, lasciando tracce sul vagone e sul terreno. Un osservatore viene posto al centro del vagone, in moto con esso; mentre un altro viene posto sulla banchina della stazione sempre a metà strada dal luogo di impatto dei due fulmini.

Entrambi gli osservatori hanno il compito di registrare i segnali luminosi dei fulmini.

I due segnali luminosi raggiungono l’osservatore sulla banchina della stazione nello stesso istante, perciò, conclude che gli eventi sono avvenuti simultaneamente. Consideriamo adesso gli stessi eventi visti dall’osservatore posto sul vagone, a metà strada tra il capo e la coda. Per questo osservatore, in movimento assieme al vagone, il risultato della misurazione sarà che la testa del vagone è stata colpita dal fulmine prima della coda. Motivazione di questo risultato è che la luce che trasporta l’informazione, muovendosi in direzione opposta rispetto a quella del treno, impiega meno tempo rispetto a quella proveniente dalla coda per raggiungere l’osservatore.

 Si potrebbe ripetere il ragionamento con un altro ipotetico treno che viaggia in direzione opposta: questa volta gli osservatori in esso concluderebbero che l’ordine di caduta dei fulmini sarebbe inverso.

In conclusione, non solo la simultaneità non viene mantenuta, ma è possibile concepire sistemi di riferimento in cui l’ordine di successione degli eventi si capovolge.

Possiamo pensare allora a riferimenti in cui sta avvenendo o è già avvenuto il nostro futuro? Significa che i legami di causa-effetto non sono più validi?

Questo, non è affatto vero: tutto quello che si è detto sinora è riferito a eventi completamente indipendenti.. La teoria relativistica di Einstein non solo salva, ma anzi rafforza il significato del rapporto di causa-effetto..

Se due eventi A e B sono legati da un fatto fisico in modo tale che A sia la causa e B l'effetto, l'evento A precederà l'evento B in ogni riferimento, anche se con diversa separazione spaziale.

La simultaneità è un concetto relativo, ma la relazione di causa-effetto non lo è!

Prendiamo per modello due fatti completamente scollegati tra loro, ad esempio, dalla Terra si calcola che una esplosione sul Sole e una sulla stella Vega sono avvenute a distanza di un anno.



Come dati disponibili in riferimento Terrestre abbiamo:

Separazione temporale tra i due eventi = 1 anno;

Separazione spaziale tra i due eventi = 25 anni-luce;

In questo caso nessuno dei due eventi può influenzare l'altro perché nessuna informazione è in grado di percorrere lo spazio che li separa in un tempo pari alla loro separazione temporale: l'ordine temporale di due eventi scollegati può essere sovvertito a seconda dei diversi riferimenti adottati.

Il collegamento (non necessariamente di causa-effetto) tra due eventi è quindi legato alla possibilità (teorica) che una qualunque informazione, viaggiando alla velocità della luce, possa percorrere lo spazio che li separa in un tempo almeno uguale alla loro separazione temporale.
Se questo accade uno dei due eventi precederà sempre l'altro in qualsiasi riferimento, anche con diverse separazioni spaziali e temporali.


In definitiva si può affermare che la relazione di causa-effetto non dipende dal sistema di riferimento.

Alla luce di queste permesse possiamo ora arrivare a parlare della Fisica quantistica, per fare questo però, sarà necessario accantonare per un attimo tutte le certezze che abbiamo con fatica appreso nel corso della nostra vita, e allargare la nostra conoscenza lasciando la mente aperta alla contemplazione di molteplici possibilità.

Le grandi rivoluzioni della scienza sono sempre legate a sconvolgimenti in campo filosofico e sociale. Le ripercussioni della Fisica quantistica a livello filosofico stanno arrivando ora, ma sono ancora largamente limitate rispetto a quello che accadrà nei prossimi anni.



Nel parlare di causa-effetto, bisogna tenere conto che nella Fisica quantistica non esiste una realtà oggettiva della materia, ma solo una realtà creata di volta in volta dalle osservazioni dell’uomo, e che la dinamiche fondamentali tra le particelle sono governate dal “principio di indeterminazione” di Heisemberg, della “simmetria temporale” di Bell e dalla “sincronicità” di Jung e Pauli. E’ inoltre possibile che la materia possa “comunicare a distanza”, che possa “scaturire dal nulla”, e che lo stato oggettivo della materia sia caratterizzato da una “sovrapposizione di più stati” tutti ugualmente possibili.

Vediamo ora nel dettaglio ognuno di questi fondamentali.

In Fisica quantistica, l’incertezza è qualcosa di preciso e definito. Ci sono coppie di parametri, conosciute come variabili coniugate, per le quali è impossibile avere un valore precisamente determinato per ogni membro della coppia e nello stesso istante.

L’incertezza sulla posizione e il momento costituisce l’esempio per eccellenza.

Descritto per la prima volta nel 1927 da Werner Heisemberg, nel suo “principio di indeterminazione”, implica che nessuna entità subatomica può avere nello stesso istante sia un momento determinato (in pratica una determinata velocità) sia una posizione precisamente determinata. Ciò non è dovuto a una qualche mancanza di accuratezza nelle misurazioni, ma anzi, significa che questa imprecisione è una qualità stessa della materia. L’elettrone non ha una posizione e un momento perché egli stesso non sa dove si trova e dove sta andando. Quindi, sebbene sia possibile avvicinarsi il più possibile con le misurazioni, concluderemo che più preciso risulta uno dei parametri, meno accurato è l’altro. Ciò è da imputare alla caratteristica tipica delle particelle di comportarsi sia come un onda, sia come un corpuscolo (dualità onda-particella).

Questa duplice natura delle particelle è stata scoperta e confermata durante un esperimento chiamato “della doppia fenditura”: esperimento nel quale è racchiuso il mistero centrale della meccanica quantistica.

La dinamica dell’ esperimento è quella di proiettare un fascio di elettroni su uno schermo sul quale sono stati ritagliati due fori. Gli elettroni dopo aver attraversato i due fori colpiscono una lastra fotografica lasciandone una traccia. L’incredibile risultato, di questo apparentemente semplice esperimento, è che gli elettroni passano contemporaneamente attraverso i due fori comportandosi come un onda, per poi finire contro la lastra fotografica lascando l’impronta della loro singolarità. Le entità quantistiche dimostrano di essere capaci  di passare attraverso le due fenditure nello stesso istante, non solo, hanno anche una sorta di consapevolezza, cosicché ognuna di esse può scegliere di dare un contributo alla figura d’interferenza sulla lastra fotografica cadendo nel punto corretto alla creazione della figura, anziché alla sua distruzione.

Ma c’è dell’altro. Se dovessimo pensare che tutto ciò sia poco credibile, e dovessimo porre un rilevatore all’altezza di ognuno dei due fori, quella condotta misteriosa scomparirebbe all’istante. A quel punto vedremo davvero ogni singola particella (fotone o elettrone) passare per uno solo dei due fori, e otterremmo una figura sulla lastra fotografica completamente diversa dalla precedente. Le entità quantistiche sembrano sapere di essere osservate, e si dimostrano capaci di modificare i loro comportamenti di conseguenza (ancora una volta, vale la pena di sottolineare che tutto ciò è stato realmente comprovato dai fatti sperimentali).



 Nel 1951 John Stewart Bell dimostrò l’esistenza della famosa simmetria CPT (Charge Parity and Time reversal symmetry), anche nota come simmetria del tempo, secondo la quale si osserva, nel microcosmo, una perfetta simmetria di tutti i processi relativamente al verso del tempo.

La simmetria CPT è una ulteriore conferma sperimentale ed empirica del fatto che le leggi del microcosmo sono governate dalla duplice soluzione dell’energia, dal duplice verso del tempo e dalla duplice causalità.

Al contrario, per quanto riguarda il livello macroscopico, in un universo in espansione come il nostro, l’entropia può solo aumentare e che per questo motivo le leggi della fisica classica mostrano un’asimmetria temporale a favore dell’entropia.

Questa ipotesi aveva dimostrato che l'entropia è la freccia del tempo”, nel senso che essa obbliga gli eventi fisici a muoversi dal passato verso il futuro.

Nel macrocosmo l’esperienza sensibile e comune del tempo è quindi quella di eventi che fluiscono incessantemente dal passato verso il futuro, con cause collocate nel passato.

Questa contrapposizione microcosmo/macrocosmo suggerisce l’esistenza di un duplice livello di descrizione della realtà:

- quello della fisica classica (macrocosmo), nel quale il tempo fluisce dal passato verso il futuro e la causalità è di tipo meccanico;

- quello della fisica quantistica (microcosmo), nel quale il tempo è simmetrico ed unitario e la causalità può fluire in entrambi i versi: dal passato verso il futuro e dal futuro verso il passato.





La teoria della relatività ristretta di Einstein mostra che l’energia positiva può tendere alla velocità della luce, ma non può mai superarla. Ad esempio, per percorrere la distanza che separa la Terra dalla Luna (300.000 Km) un segnale luminoso impiega 1 secondo, mentre per percorrere la distanza che separa la Terra dal Sole (150.000.0000 Km) impiega poco più di 8 minuti.

Nel 1980 Alain Aspect realizzò il primo esperimento EPR (Einstein-Podolski Rosen) che ha di fatto dimostrato la possibilità di trasmettere istantaneamente informazione indipendentemente dalla distanza spaziale. L’esperimento EPR, proposto nel 1935 da Einstein, consisteva nel dividere due elettroni che condividevano lo stesso stato quantico (ossia la stessa orbita attorno ad un nucleo atomico), allontanarli ed effettuare quindi la misura del loro spin.

Lo spin o “trottola” è quel fenomeno per cui un elettrone gira su se stesso, come un pallone sull’asse di un giocoliere. Può girare in senso orario o in senso antiorario e, come la punta di un trapano, se gira in senso orario va in su (entra), mentre se gira in senso antiorario va in giù (esce).

In base al principio di esclusione di Pauli, che vige senza alcun limite di spazio e di tempo, se il primo elettrone della coppia inverte il proprio spin, automaticamente e istantaneamente anche il secondo elettrone deve necessariamente invertire il proprio spin.

In altre parole, una particella si deve adeguare istantaneamente all’altra anche se viene portata ai confini dell’Universo.

Nel 1980, due elettroni accoppiati furono separati a Roma presso l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (I.N.F.N.) e uno dei due venne trasportato (confinato in un contenitore magnetico, con complicatissimi accorgimenti) al C.E.R.N. (Centro Europeo di Ricerche Nucleari) di Ginevra. A Ginevra fu poi cambiato lo spin dell’elettrone e istantaneamente anche lo spin dell’elettrone rimasto a Roma si girò, come atteso in base al principio di esclusione di Pauli.

Einstein tuttavia, pur avendo teorizzato questo esperimento, non aveva previsto però che il cambiamento dello spin potesse avvenire a distanza (in questo caso 1.000 km) e istantaneamente.

L’esperimento EPR è stato replicato nei laboratori di tutto il mondo e mostra che quando si separano due elettroni accoppiati, indipendentemente dalla loro distanza, la misura sull’uno corrisponde esattamente e istantaneamente alla misura sull’altro. E’ come se il secondo elettrone “conosca” che cosa stia accadendo al primo indipendentemente dalla distanza che li separa.



Altro interessante paradosso che si incontra in Fisica quantistica e quello della “sovrapposizione di stati”. Si immagini di avere davanti a sé due scatole che contengano ognuna un guanto di uno stesso paio. Ora, ancora prima di guardare dentro le scatole, un qualunque "osservatore" avrà la certezza che ciascuna di esse conterrà un guanto con un verso ben definito; la scatola di destra ad esempio potrà contenere un guanto destro, la scatola di sinistra un guanto sinistro e viceversa. Ma, se anziché usare guanti normali usassimo un paio di "guanti quantistici", il loro verso nelle rispettive scatole, verrebbe definito solo nel momento in cui si guardasse dentro una di esse. Nella teoria quantistica (e del formalismo matematico che ne stabilisce le regole) infatti, è l’atto di guardare ("osservare") all’interno di una delle due scatole che conferisce realtà alla coppia dei guanti. Prima che un osservatore guardi dentro una delle scatole i guanti si trovano in uno stato indefinito, sovrapposto, ove le caratteristiche (nella fattispecie il verso destro e sinistro) si confondono in una strana entità "destra-sinistra".

Alla luce di queste premesse possiamo ora affrontare l’esperimento “mentale” proposto da Erwin Schrodinger allo scopo di dimostrare come quella che era l’interpretazione classica della meccanica quantistica risulta essere incompleta quando deve descrivere sistemi fisici in cui il livello subatomico interagisce con il livello macroscopico.

 All’interno di una scatola d’acciaio Schrodinger immagina di porre un gatto e una piccola quantità di sostanza radioattiva, la cui disintegrazione viene registrata da parte di un contatore Geiger il quale a sua volta mette in azione un martello che infrange una fialetta di veleno in forma gassosa. Ora volendo seguire alla lettera la teoria quantistica, sostiene Schrodinger, passato un certo periodo di tempo dall’istante in cui il gatto è stato messo all’interno della scatola e ha avuto inizio l’esperimento, ci si trova nella situazione in cui il momento della disintegrazione della sostanza radioattiva non può essere calcolato con esattezza (risultando tale momento sovrapposizione di più tempi) e quindi ci si trova nella impossibilità oggettiva di assegnare un reale stato di vita o di morte al gatto. Anzi ci si trova in una strana situazione ove la fiala di veleno risulta potenzialmente allo stesso tempo rotta e non rotta, con un gatto contemporaneamente vivo (fialetta non rotta) e morto (fialetta rotta).



Dopo un certo periodo di tempo, quindi, il gatto ha la stessa probabilità di essere morto quanto l'atomo di essere decaduto. Visto che fino al momento dell'osservazione l'atomo esiste nei due stati sovrapposti, il gatto resta sia vivo sia morto fino a quando non si apre la scatola, ossia non si compie un'osservazione.

In pratica, una particella elementare possiede la capacità di collocarsi in diverse posizioni contemporaneamente, e anche di esser dotata di quantità d'energia diverse al medesimo istante. Per quanto "assurde" al nostro modo di pensare, queste strane proprietà della materia e dell'energia corrispondono alla realtà del mondo dei quanti. Le particelle subatomiche sono "delocalizzate" nello spazio e nel moto, per cui - fra un esperimento e l'altro - si comportano come se stessero in più luoghi contemporaneamente. Ma, paradosso nel paradosso, ogni qualvolta una particella delocalizzata venga osservata con un esperimento che - per propria natura - modifica indispensabilmente il livello energetico, la quantità di moto e pure la posizione della particella in esame, essa verrà certamente trovata nella posizione cercata e dotata di quel determinato livello energetico.

Ritornando al caso del gatto, fino a quando l'atomo non si disintegra (e questo evento dipende unicamente dalla natura dell'atomo radioattivo scelto, quindi è un evento unicamente probabilistico), emettendo la particella che aziona il marchingegno letale, il gatto è sicuramente vivo. Viceversa, al decadimento dell'atomo, il gatto va certamente incontro alla morte. Pertanto, se non si apre il contenitore in cui alloggiano il gatto e il marchingegno letale, non si potrà determinare quale destino abbia avuto il gatto: di conseguenza, il gatto può - al contempo - esser considerato sia vivo sia morto. Solo aprendo il contenitore (quindi, compiendo l'esperimento) si reperirà un gatto vivo o morto. Il paradosso, solo apparente, sta proprio qui: finché non si compie l'osservazione, il gatto può esser descritto indifferentemente come vivo o come morto, in quanto è soltanto l'osservazione diretta che, alterando i parametri basali del sistema, attribuirà al gatto (al sistema medesimo) uno stato determinato e "coerente" con la nostra consueta realtà.





BIBLIOGRAFIA: “Il bizzarro mondo dei quanti” Springer edizioni di Silvia Arroyo Camejo, “Q come quanto” macroedizioni di John Gribbin, “introduzione al pensiero complesso” Sperling & kupfer, “Principi di fisica” di Jewett & Serway quarta edizioni, “Open Fisica” copyleft Ludovica Battista. Molte delle informazioni e degli esempi riportati nel testo sono stati liberamente presi da “siti web” di divulgazione scientifica e quindi considerati di libero dominio.

venerdì 12 agosto 2011

 . . . Perchè una realtà non ci fu data e non c’è; ma dobbiamo farcela noi, se vogliamo essere; e non sarà mai una per sempre, ma di continuo e infinitamente mutabile. . .Luigi Pirandello.

Quando nell’ambiente in cui ci troviamo avviene un qualche cambiamento, come la comparsa di un oggetto, la presentazione di un suono, o la diminuzione della luminosità e così via, i nostri organi di senso registrano questi nuovi stimoli e li trasmettono al cervello. Ogni sistema sensoriale è però in grado di registrare soltanto una determinata forma di energia fisica (intensità, frequenza, lunghezza d’onda ecc.); per esempio il sistema visivo è sensibile all’energia luminosa o, più correttamente, alla luce riflessa da un oggetto (energia elettromagnetica). Quando la luce del sole (detta anche luce bianca) illumina un oggetto, si danno tre casi interessanti: uno, tutto lo spettro viene riflesso, e l’oggetto appare bianco; due, tutto lo spettro viene assorbito, e l’oggetto appare nero; tre, una parte dello spettro viene assorbita e l’altra riflessa, e l’oggetto appare del colore della luce riflessa. Ciò che viene assorbito non può raggiungere l’occhio, e quindi non può essere visto. I diversi sistemi sensoriali devono tradurre la forma di energia registrata in impulsi nervosi che rappresentano “l’unico linguaggio che il cervello è in grado di comprendere”.

Attenzione:quando parliamo di colore della luce riflessa (e anche quando parliamo di luce rossa o blu) non dobbiamo cadere nell’errore di pensare che i raggi luminosi siano di per sé colorati; essi non sono certo più colorati delle onde radio o dei raggi X. Il colore è legato alla capacità di certi raggi di produrre determinate risposte nel nostro sistema nervoso. Strettamente parlando, è scorretto dire che il pomodoro è rosso; dovremmo invece dire che il pomodoro evoca una sensazione che la maggior parte della gente chiama “rosso”. Per concludere, gli oggetti appaiono colorati perché la luce che riflettono viene catturata da un occhio (e un sistema nervoso) fatti in un certo modo. Siccome alcune persone hanno occhi (o sistemi nervosi) anomali, le loro esperienze del colore e delle sensazioni in genere possono risultare diversissime da quelle della maggior parte di noi.



Il processo attraverso il quale i diversi tipi di energia fisica vengono tradotti in segnali nervosi è la “trasduzione”. Attraverso la trasduzione, il cambiamento ambientale registrato dall’organo di senso e tradotto in un segnale bioelettrico, viene trasmesso al cervello. E’ a questo punto che possiamo provare una sensazione del cambiamento ambientale cui abbiamo assistito.

Nella loro funzione di registrazione e traduzione degli stimoli esterni, i nostri organi di senso sono però vincolati da alcuni limiti.

Il primo è legato al fatto che ogni sistema sensoriale è in grado di cogliere e registrare soltanto il tipo di energia al quale è sensibile. Ne consegue che molti stimoli sono presenti nell’ambiente ma non possono essere avvertiti perché i nostri sistemi sensoriali non sono in grado di rilevarli; si  pensi per esempio agli ultrasuoni o alle onde elettromagnetiche, nelle quali siamo immersi per permettere il funzionamento di cellulari e altri apparati elettronici, ma che non possiamo in gran parte percepire.

Un secondo limite si riferisce invece all’intensità dello stimolo; per poter essere registrato dagli organi di senso lo stimolo deve essere sufficientemente intenso. Ciò significa che la nostra sensibilità ha dei limiti al di sotto dei quali lo stimolo non viene avvertito. Questo limite viene definito “soglia assoluta”. Più precisamente, la soglia assoluta è il livello minimo di intensità che uno stimolo deve avere per essere colto nel 50% dei casi.

Per ciascuno dei 5 sensi sono definite su base empirica delle soglie assolute di percezione:
Vista: percezione della luce di una candela a 48 km di distanza, in una notte serena e limpida.
Udito: percezione di un orologio meccanico a 6 metri di distanza all'interno di una stanza silenziosa.
Gusto: un cucchiaino di zucchero in 7,5 litri di acqua.
Olfatto: una goccia di profumo in un appartamento di tre stanze.
Tatto: la pressione generata dall'ala di un'ape fatta cadere da 1 cm di altezza.

Gli stimoli di intensità superiore saranno quindi rilevati sempre, quelli di intensità inferiore non saranno mai avvertiti, mentre quelli coincidenti con il valore di soglia saranno avvertiti mediamente una volta su due.

Un altro limite del sistema sensoriale si riferisce alla capacità da parte di ogni singolo organo di senso di cogliere una variazione di intensità dello stimolo. Per esempio se un suono “soprasoglia” ci genera una sensazione e subito dopo lo stesso suono viene aumentato di un solo decibel, saremo oppure no in grado di differenziare i due suoni riconoscendoli come diversi?

Anche di questo si sono occupati gli psicologi, che attraverso misurazioni sono giunti a definire la “soglia differenziale”, ossia quella differenza minima di intensità che due stimoli devono avere per essere avvertiti nel 50% dei casi.

Nel 1934 Ernst Heinrich Weber evidenziò che la “soglia differenziale” (o differenza appena rilevabile) di ogni stimolo è una frazione costante dell’intensità dello stimolo iniziale.

Ad esempio, è stato misurato che la costante di Weber riguardo alla stima del peso è di 0,02.  Per un peso iniziale di 1kg  la soglia differenziale sarà quindi di 20 grammi. Ciò sta a significare che se ci viene posto un oggetto pesante 1kg sulla mano, e subito dopo un altro identico ma di diverso peso e ci viene chiesto di giudicare se i due oggetti sono di pesantezza uguale o diversa, per poter rilevare una diversità, il secondo oggetto deve essere di almeno 20 grammi più pesante o più leggero del primo in ragione della costante di 0,02.

In pratica la legge di Weber dimostra che più grande è uno stimolo (o più luminoso, più forte, più intenso…) maggiore sarà la differenza necessaria rispetto ad un altro stimolo per essere rilevata.

Alcuni anni più tardi, Gustav Fechner cercò di verificare di quanto variasse la sensazione (componente psicologica) al variare dell’intensità (componente fisica). Egli poté stabilire che la variazione di uno stimolo è percepita in misura minore quando l’intensità di partenza di tale stimolo è elevata: mentre l’intensità dello stimolo aumenta in maniera geometrica, la sensazione corrispondente da noi percepita aumenta in progressione aritmetica.

La legge di Fechner generalizza una intuizione che probabilmente molti di noi hanno sperimentato di persona. Se siamo nella nostra auto fermi a un semaforo e ad un tratto sentiamo il suono di un clacson, lo avvertiremo in maniera molto netta, o in altre parole, ci provocherà una sensazione molto intensa. Se però anche un secondo automobilista inizierà a suonare, il suono del secondo clacson non ci provocherà una sensazione di intensità doppia rispetto alla precedente, tantomeno un terzo  che si unisca ai primi due non darà una sensazione tre volte  più acuta. Continuando nell’esempio, non saremmo assolutamente in grado di percepire la differenza provocata dal suono di un clacson che si unisse ad altri cento.

Dire che la percezione è “percezione di differenze” significa che, nel caso “estremo” di una stimolazione costante, omogenea ed indifferenziata nello spazio e nel tempo si accompagna ad un’assenza di percezione. La percezione in condizioni naturali, ovviamente, offre questo tipo di esperienze in situazioni estremamente rare. L’imput sensoriale della nostra esperienza del mondo è quasi sempre articolato e differenziato, e questo garantisce che noi si possa percepire quel che ci circonda in modo efficace e funzionale alla sopravvivenza.



Bibliografia: “I processi cognitivi” di Roberto Nicoletti e Rino Rumiati il Mulino edizioni, “Il colore della luna”  di Paola Bressan editori Laterza, Portale di scienze psicologiche Università di Chieti.