Buongiorno,
questo blog nasce dall’esigenza di archiviare e rendere disponibili informazioni, pensieri e idee (elaborate o semplicemente riportate), acquisite durante uno studio sulla filosofia zen. Considerandolo, più che una guida, una raccolta di nozioni che partendo dallo zen ne vanno oltre.
Durante il lavoro di ricerca, infatti, ho riscontrato moltissime analogie tra i concetti espressi dai vari insegnamenti spirituali e le principali scoperte in campo scientifico.
La nostra mente, invero, per snellire il lavoro di calcolo sull’enorme quantità di stimoli, provenienti sia dall’interno sia dall’esterno, sfrutta dei percorsi prestabiliti a basso dispendio energetico e di maggiore velocità di esecuzione. Tali scorciatoie, fondamentali per reagire nell’immediato alle varie situazioni, molto spesso, ci portano a conclusioni che vanno a discapito della precisione, dandoci una proiezione approssimativa e irrazionale di come in realtà le cose stanno.
I contenuti qui riportati, spero siano utili a dare uno stimolo al pensiero, lasciando ovviamente libera la facoltà di trarre le proprie conclusioni in maniera assolutamente indipendente e soggettiva.
“Un lungo viaggio, inizia sempre con il primo passo…..”
(proverbio zen).

giovedì 30 agosto 2012

"L'ABITUDINE SI VINCE CON L'ABITUDINE"... Tommaso da Kempis (L'imitazione di Cristo VIII sec.)


Il termine abitudine, viene usato per indicare sia le attività motorie, sia le attività mentali, che dopo numerose ripetizioni vengono svolte in modo relativamente automatico, o più semplicemente, con maggior facilità e coordinazione.
L'abitudine è il processo mediante il quale un comportamento diventa abituale. I comportamenti si ripetono in un contesto coerente, vi è un aumento incrementale nel collegamento tra il contesto e l'azione. Per azione, si intendono sia attività mentali e motorie, che, dopo un periodo relativamente lungo in cui vengono ripetute, vengono poi svolte in maniera più sciolta o con maggiore coordinazione dei movimenti. Questo aumenta l'automaticità del comportamento in tale contesto. Caratteristiche di un comportamento automatico possono essere: efficienza, mancanza di consapevolezza, la non intenzionalità, l'incontrollabilità.

Una cattiva abitudine è un modello di comportamento negativo. Alcuni esempi includono: procrastinazione, irrequietezza, disordini nell’alimentazione, il commiserarsi……….
Un fattore chiave per distinguere una cattiva abitudine da una dipendenza o da una malattia mentale è l'elemento della forza di volontà. Se una persona sembra ancora avere il controllo sul suo comportamento, allora è solo un'abitudine. Le buone intenzioni sono in grado di escludere l'effetto negativo delle cattive abitudini, ma il loro effetto, sembra essere indipendente: le cattive abitudini restano, ma sono sottomesse invece che annullate.
Abitudini sono, ovviamente, i comportamenti che si legano alle occasioni formative di cui un individuo sa, o può usufruire nella vita, dando luogo a scelte più o meno libere: per es., praticare attività fisiche o sportive, leggere, ascoltare musica, andare al cinema o al teatro, guardare la televisione. Quando sono segno di difficoltà o disagio di ordine personale o sociale, si mutano in “cattive abitudini”.

Le abitudini sono, in conclusione, i comportamenti e gli atteggiamenti usuali per un individuo, quelli che connotano significativamente la sua condotta: nel loro insieme identificano il suo 'stile di vita' e il suo modo di atteggiarsi e di entrare in rapporto con sé e con gli altri (si pensi, per es., alla mimica facciale, alle posture, ai comportamenti prossemici).
La lettura delle abitudini di un individuo fornisce elementi preziosi per metterne a fuoco l'identità psicologica, culturale e sociale.

Le abitudini sono legate, infatti, alla storia di un individuo e lo vincolano strettamente alle sue esperienze, ai suoi affetti e al suo percorso formativo.

Nella ricerca pedagogica, anche grazie alle suggestioni offerte dalla teoria dell'evoluzione di C. Darwin, si sono affermate visioni sempre più ampie e dinamiche del concetto di “abitudine”. È esemplare, a tale riguardo, la posizione per il quale "l'abitudine è un comportamento consolidato, acquisito grazie a esperienze pregresse, che si sottrae a condotte meccaniche e passivizzanti, di mero e definitivo adattamento o, meglio, di assuefazione all'ambiente. L'abitudine è invece condotta che si inserisce in modo dinamico nel continuum delle esperienze, ne consente di nuove, è passibile di cambiamento, e modifica, se necessario, il contesto" (J. Dewey).

Anche la ricerca psicologica ha analizzato i caratteri propri di questo specifico tipo di apprendimento. A partire dagli studi di William James, docente prima di filosofia e poi di psicologia alla università di Harvard, e fondatore della “Society of Psychical Research”.
James, afferma che l'abitudine ricopre un ruolo molto importante nel campo dell'educazione. Tale importanza deriva direttamente dal fatto che l'abitudine ricopre un ruolo centrale nell'attività umana vista nel suo complesso.
Se l'uomo è un "fascio di abitudini", quale sarà il compito essenziale dell'educazione? Può essere indicato come sostanziale quello di individuare quelle tecniche razionali e pratiche che tendano a sviluppare nell'essere umano delle abitudini vantaggiose e ad avvilire quelle negative fino al punto di farle sparire “L’educazione serve al comportamento, e le abitudini sono la materia di cui il comportamento si serve… dobbiamo far si che il nostro sistema nervoso sia un alleato e non un nemico!”.
James riprende il pensiero del filosofo Alexander Bain, spiegando in che modo si acquista e poi si mantiene una buona abitudine. Le maggiori difficoltà si incontrano nel momento in cui si vuole creare una nuova abitudine: in quel caso si deve agire con grande determinazione, non facendosi distrarre da altri fattori (disciplina). Questo permette al sistema nervoso di accettare e "dare spazio" alla nuova decisione facendola propria. E' pertanto evidente l'importanza etica dell'abitudine: essa determina infatti nel soggetto l'insediarsi in maniera stabile di comportamenti morali. 
James ci offre anche alcune osservazioni pratiche e massime fondamentali, che qui estrapoliamo per intero dal suo “Le leggi dell’abitudine”.
  • ·      L’acquisizione di una nuova abitudine, o l’abbandono di una vecchia, comportano la nostra più seria e decisa partecipazione all’iniziativa.
  • ·      Non tollerate mai un’eccezione prima che la nuova abitudine sia radicata nella vostra vita. La continuità nell’esercizio equivale a far girare il sistema nervoso in modo infallibilmente giusto. Un solo successo dal lato sbagliato disfa molti successi dal lato giusto.
  • ·      Cogliete la prima opportunità ad agire secondo la risoluzione che vi siete proposti, e seguite ogni stimolo emotivo che avvertite in direzione delle abitudini che desiderate acquistare. Infatti, non è nel momento in cui si formano, ma nel momento in cui si producono effetti motori, che le risoluzioni e le aspirazioni comunicano un nuovo assetto al cervello. Indipendentemente dalla ricchezza di massime di un individuo, e indipendentemente dalla bontà dei suoi sentimenti, senza una possibilità concreta di agire, il suo carattere non migliorerà affatto.
  • ·      Non fate troppe prediche né conversazioni astratte. Aspettate, piuttosto, che si presenti un’opportunità pratica e afferratela, in modo che in un'unica azione possiate pensare, percepire e fare. I sermoni e le conversazioni diventano presto noiosi per l’intelletto.
  • ·      Tenete viva in voi la facoltà dello sforzo mediante qualche piccolo esercizio da eseguire periodicamente. Vale a dire: siate sistematicamente eroici nelle cose non necessarie, fate quasi ogni giorno qualcosa per la sola ragione che è difficile farlo, e ugualmente abituate a concentrare la vostra attenzione a privarsi di cose non necessarie.


"Tuttavia, non esiste incompatibilità tra i principi generali fino ad ora enunciati, e le eventuali modificazioni più repentine del carattere. Si possono lanciare abitudini nuove a condizione che vi siano stimoli ed eccitamenti nuovi. Ora in queste esperienze c’è molta forza viale, e a volte sono così rivoluzionarie e critiche da cambiare completamente la scala di valori di un individuo e il suo sistema concettuale. In tali casi, il vecchio ordine di abitudini risulta sconvolto, e se le nuove motivazioni risultano valide, si formeranno abitudini diverse in grado di ricostruire o rigenerare la natura dell’individuo" (William James).

“L'abitudine è l'abitudine, e nessun uomo può buttarla dalla finestra; se mai la si può sospingere giù per le scale, un gradino alla volta”.
Mark Twain, Wilson lo Svitato, 1894.











bibliografia

H. Bergson, "Il pensiero e il movimento". Saggi e conferenze, Parigi, PUF, 1934.
J. Dewey, The influence of Darwin on phylosophy and other essays in contemporary thought, New York, Henry Holt, 1910.
D. Janicaud, Une généalogie du spiritualisme français. Aux sources du bergsonisme. Ravaisson et la métaphysique, La Haye, Nijhoff, 1969.
M.-F.-P. Maine de Biran, "Influenza dell'abitudine sulla facoltà di pensare", Parigi, Henrichs, 1803.
A. Oliverio, Biologia e comportamento. Introduzione alla psicologia fisiologica, Bologna, Zanichelli, 1982.
M. Proust, "Alla ricerca del tempo perduto", 3 voll., Parigi, Gallimard, 1954 (trad. it. Milano, Mondadori, 1983).
William James “Discorsi agli insegnanti e agli studenti sulla psicologia e su alcuni ideali….” Capitolo 8 “la legge dell’abitudine.
Enciclopedia “Treccani” (Le abitudini e le scienze dell'uomo di Lucia Genovese)






domenica 27 maggio 2012

"Per essere perfetta le mancava solo un difetto".... Karl Kraus.


Il concetto di “autorealizzazione”, viene definito da Jung come un impulso interno all’io per realizzare, soddisfare e migliorare le proprie potenzialità umane. Il termine viene anche definito come: “la tendenza innata a sviluppare al massimo i propri talenti e possibilità, che contribuiscono ad ottenere un sentimento di soddisfazione verso sé stesso da parte dell’individuo”.
La realizzazione personale esprime le scelte fondamentali della persona, l’indirizzo della propria esistenza verso le principali finalità che formano il suo progetto di vita.

La ricerca della perfezione (progresso personale) consiste nel proporsi delle mete, e nell’atteggiamento di continuo superamento quotidiano: ogni giorno di più, oggi meglio di ieri.

Ci sono tante vie nella ricerca della perfezione, (vista come meta da raggiungere), al fine ultimo dell’autorealizzazione come persona. Esse richiamano a un responsabile atteggiamento di fronte alla vita: “abbiamo una vita sola... bisogna spenderla bene”. È necessario perciò eliminare la mediocrità, nessun uomo si dovrebbe accontentare di una vita mediocre.

Ma questa perfezione, non è già compiuta fin dalla nascita, non è assoluta per il solo fatto di essere uomo, né è realizzata dall’inizio della vita.E’ si perfezione, ma una perfezione relativa e non pienamente finita, e in quanto relativa, non è realizzata totalmente: è una perfezione a rischio, vulnerabile e imperfetta. Ciò vuol dire che la perfezione umana è “perfezione perfezionabile”.

La perfezione perfezionabile, però, può anche divenire una perfezione difettosa, (un’imperfezione). Le attitudini della persona verso il processo di “miglioramento o peggioramento”, cioè la crescita o de-crescita delle condizioni iniziali, coinvolgono in modo radicale la libertà e la responsabilità dell’uomo influenzando in maniera decisiva il bisogno vitale di progredire (A. Polaino, 1999).

Il bisogno di superamento: l’andare avanti, come principio antropologico fondamentale e proprio ad ogni essere umano, sta alla base del processo di autorealizzazione della persona.

Sul dizionario, la perfezione, viene definita come: “stato di completezza e ineccepibilità”. E il verbo perfezionare, a sua volta, viene definito come: “Finire un opera per intero, nel massimo grado di bontà o eccellenza”. Il concetto di perfezionismo si definisce come: “la tendenza a migliorare indefinitamente un lavoro senza decidersi a considerarlo mai finito”.


Questa tendenza, arriva a essere un autentico ostacolo al conseguimento della realizzazione personale. Infatti, il perfezionismo, senza entrare nelle numerose definizioni cliniche che lo descrivono, è associato a uno stato di malessere o di sofferenza personale, che rende significativamente difficile la vita quotidiana delle persone che patiscono questo disturbo.Il perfezionismo non è una malattia classificata nei manuali di psicologia o di psichiatria, ma è una componente di un complesso di manifestazioni comportamentali che si riscontrano, per lo più, in soggetti ossessivi.


  •               Concentrazione nell’evitare l’errore. 
  •               Atteggiamento di tensione/ansietà davanti ai compiti.
  •               Senso di valore personale in relazione ai risultati. 
  •               Pensiero in bianco e nero: o perfezione o fallimento.      
  •               Credere di dover sempre spiccare tra gli altri.            
  •               Insaziabile necessità di raggiungere gli scopi prefissati.           
  •               Inflessibile con i suoi propositi.         
  •               Obiettivi molto elevati e spesso irraggiungibili.       
  •               Frequente ritardo nella realizzazione dei compiti.          
  •               Interesse ad evitare le conseguenze negative.       
  •               Scopi o finalità orientate all’autocompiacimento.  
  •               Fallimento associato ad una forte autocritica.         
  •               Paura al fallimento.          


In altre parole, perfezionista, si impone di “avere e di essere”. Questo lo priva della sua libertà e lo induce a valutarsi solo ed esclusivamente in base al raggiungimento dei propri obiettivi senza porsi traguardi intermedi. Per il perfezionista non esiste “l'arte dell'accontentarsi" o dell'auto-accettarsi e conseguentemente la sua vita, tende a ridursi in base al pensiero uni-direzionale del “tutto o niente”.

Imporsi obiettivi praticamente impossibili da raggiungere non dà affatto la felicità. Al contrario, questo atteggiamento, può renderci molto infelici e comportare il rischio di risposte ansiose alle prestazioni che ci troviamo ad affrontare.In particolare, questa tensione, si viene a creare per il divario fra quello che “siamo” e quello che “vorremmo essere”.

Le persone che soffrono di questo disturbo, combattono una guerra contro se stesse e i propri sentimenti per cercare di adeguarsi a uno standard di perfezione autoimposto: le emozioni, i pensieri, gli atteggiamenti che non sono compatibili con tale modello, vengono considerati inaccettabili e relegati nell'inconscio.

Molti ansiosi sono caratterizzati dalla ricerca della perfezione, inconsciamente nutrono la convinzione di poter essere accettati dagli altri solo se brillanti, vincenti, sempre all'altezza della situazione. Dal momento, che nutrono delle aspettative irrealistiche e troppo elevate nei confronti di se stessi, si sentono costantemente inadeguati e non all'altezza.

Entro certi limiti, l’ansia è necessaria, in quanto ha un’importante funzione adattativa: a un livello minimo di ansia la prestazione è praticamente nulla; con l’aumentare dell’ansia migliora la qualità della prestazione fino ad un livello ottimale, superato il quale l’ansia influenza negativamente la performance. L’ulteriore aumento dell’ansia comporta effetti negativi sulla prestazione che decresce progressivamente fino al punto di massima ansia, che corrisponde all’impossibilità di ogni prestazione.

Benché l’ansia sia parte della natura umana e benché tutti provino ansia in varie circostanze della vita, una certa dose di ansia accompagna ogni esperienza nuova, per alcune persone questa emozione può diventare un problema, ostacolando il raggiungimento degli obiettivi personali.

Un naturale atteggiamento derivante da una simile visione della realtà è la procrastinazione, ossia rimandare al domani con lo scopo di temporeggiare o, addirittura, di non fare ciò che si dovrebbe al fine di evitare un possibile insuccesso. Ma "perfectum" in latino vuole dire "portato a termine, compiuto".

Il desiderio di migliorare fa parte della natura umana e spesso è vantaggioso per noi, ma se spinto all'eccesso è più dannoso che utile.

In altre parole, perché ostinarsi a essere “IL MIGLIORE” quando si può concentrare la propria energia per essere semplicemente “MIGLIORE”.




Bibliografia:
García -Villamisar, D. y Álvarez Romero, M. (2007) “La  sindrome del perfezionista”  
(Almuzara edizioni).

Polaino- Lorente, A. (1999): “Dignità e progresso”.
         Departamento de Personalidad, Evaluación y Tratamiento Facultad de Educación -       Universidad Complutense de Madrid












martedì 7 febbraio 2012

“Siamo ciò che pensiamo. Tutto ciò che siamo sorge con i nostri pensieri. Con i nostri pensieri formiamo il mondo. Parla o agisci con mente impura e sarai seguito da guai, così come la ruota segue il bue che tira il carro. La mente è tutto. Parla o agisci con mente pura e la felicità ti seguirà come ombra, inamovibile. Questa è la legge, antica e inesauribile. Anche tu sei di passaggio. Sapendolo, come puoi metterti a discutere?”….. Siddhartha Gautama Sakyamuni ( il Buddha).


I sentimenti più profondi, le passioni e i desideri più intensi sono guide importantissime per l’uomo, il quale deve ad essi gran parte della sua esistenza.
Nei momenti più critici della vita – affermano i sociobiologi – c’è una prevalenza del cuore sulla mente.
Nonostante i vincoli sociali, spesso le passioni sopraffanno la ragione.
Tutte le emozioni sono impulsi ad agire.
A tutti gli effetti abbiamo due menti: una che pensa, l’altra che sente.
Il cervello umano si è evoluto raggiungendo un assetto in cui ad ogni porzione corrisponde una particolare abilità.

La funzione delle emozioni è molto importante, poiché esse, ci fanno da guida in situazioni troppo complesse per essere affrontate solo dall’intelletto. Ma per comprendere questa loro
funzione è necessario evidenziare che, il nostro repertorio emozionale acquista valore in quanto si imprime nel sistema nervoso come bagaglio comportamentale innato. I sociobiologi hanno affermato che emozioni, come la paura, sono essenziali per la nostra sopravvivenza poiché costituiscono la differenza tra la vita e la morte. L’elemento che va tenuto in considerazione è che la società si evolve velocemente mentre l’evoluzione del nostro repertorio emozionale avviene mediante un processo lento. Le emozioni sono impulsi ad agire, l’etimologia stessa della parola ce lo dimostra: emozione = dal verbo latino moveo “muovere” + il prefisso e- “movimento da”.

Alcuni ricercatori adottando i nuovi metodi hanno scoperto che ciascuna emozione ha un riscontro fisiologico a livello del nostro organismo:

- Collera : il sangue affluisce alle mani, la frequenza cardiaca aumenta, scarica di adrenalina;

- Paura : il sangue fluisce verso le gambe (fuga), il corpo si immobilizza, stato di allerta (ormoni);

- Felicità : maggiore attività di un centro cerebrale che inibisce i sentimenti negativi,disponibilità di energia, generale riposo dell’organismo;

- Amore : sistema parasimpatico, generale stato di calma e soddisfazione;

- Sorpresa : sollevamento delle sopracciglia per una visuale più ampia raccogliere il maggior numero di informazioni;

- Disgusto : offesa del gusto e dell’olfatto, tentativo di chiudere le narici o sputare il cibo;

- Tristezza : caduta di energia, depressione, rallenta il metabolismo.

Queste reazioni biologiche vengono ulteriormente influenzate e modificate dall’esperienza
personale e dalla cultura. L’uomo a tutti gli effetti possiede due modalità di conoscenza che
interagiscono per costruire la sua vita mentale: la mente razionale e la mente emozionale. La mente razionale è la modalità di comprensione della quale siamo solitamente coscienti; la mente emozionale è impulsiva e potente, ma a volte illogica. Il loro rapporto varia lungo un gradiente continuo, ma nella maggior parte dei casi operano in armonia ed equilibrio. Queste due menti sonostrutture semi-indipendenti e coordinate. Per meglio comprendere le loro funzioni occorre comprendere come il cervello si sia evoluto.

Tradizionalmente si intende come sistema limbico un gruppo di strutture neurologiche situate tra il tronco encefalico e la corteccia cerebrale.
Il tronco encefalico è la parte più primitiva del cervello che l’uomo ha in comune con tutte le specie dotate di un sistema nervoso particolarmente sviluppato.
Esso circonda l’estremità cefalica del midollo spinale. Regola funzioni vegetative fondamentali ad assicurare la sopravvivenza e controlla reazioni e movimenti stereotipati.
Era la parte dominante del cervello nell’era dei rettili.
Da questa struttura primitiva derivarono poi i cosiddetti centri emozionali.
Poi, milioni di anni dopo, da questi centri emozionali si evolsero le aree del cervello pensante: la neocorteccia.
Il fatto che il cervello pensante si sia evoluto da quello emozionale, ci dice molto sui rapporti tra pensiero e sentimento: molto prima che esistesse un cervello razionale, esisteva già quello emozionale.

Le radici più antiche della nostra vita emotiva affondano nel senso dell’olfatto, cioè nel lobo olfattivo o rinencefalo. Nei rettili, uccelli, anfibi e pesci questo rappresenta la regione suprema del cervello. Infatti l’olfatto era un senso di importanza fondamentale ai fini della sopravvivenza.
Il centro olfattivo era costituito da un sottile strato di neuroni che recepiva lo stimolo olfattivo e lo classificava nelle principali categorie: nemico o pasto potenziale, sessualmente disponibile, commestibile o tossico.
Un secondo strato di cellule inviava, attraverso il sistema nervoso, messaggi riflessi per informare l’organismo sul da farsi: avvicinarsi, fuggire, inseguire, mordere, sputare.
Dal momento che per noi gli stimoli olfattivi sono meno importanti, nel corso dell’evoluzione questo sistema ha assunto altri ruoli.
Già con la comparsa dei primi mammiferi dal lobo olfattivo incominciarono ad evolversi gli antichi centri emozionali, che ad un certo punto dell’evoluzione divennero abbastanza grandi da circondare l’estremità cefalica del tronco cerebrale. Per questo questa parte del cervello venne chiamata sistema limbico, dal latino “limbus” che vuol dire anello.
Questa nuova parte del cervello aggiunse al repertorio cerebrale le reazioni emotive che hanno più specificamente a che fare con le quattro funzioni della sopravvivenza ( nutrizione, lotta, fuga, riproduzione) e le emozioni che gli sono proprie: ira, rabbia, paura, piacere, desiderio ecc.

Quando si evolse ulteriormente, il sistema limbico perfezionò altri due strumenti: l’apprendimento e la memoria. Questo consentiva ad un animale di essere più intelligente nelle sue scelte per la sopravvivenza. Poteva infatti modulare le proprie risposte in modo molto più consono ad esigenze e situazioni mutevoli, senza dover più reagire in modo automatico e rigido.

Ma fu l’aggiunta della neocorteccia e delle sue connessioni con il sistema limbico a permettere ad esempio il legame madre-figlio, cioè quel sentimento che rende possibile lo sviluppo umano, rappresentando la base della dedizione a lungo termine necessaria per allevare i figli. Infatti nelle specie prive di neocorteccia, come i rettili, manca l’affetto materno: quando i piccoli escono dall’uovo, devono nascondersi per non essere divorati dai loro stessi genitori. Quando la massa della neocorteccia aumenta, parallelamente a tale aumento si osserva un moltiplicarsi, in progressione geometrica, delle interconnessioni dei circuiti cerebrali. Quanto più grande è il numero di tali connessioni, tanto più ampia è la gamma delle possibili risposte.
La neocorteccia rende possibili anche le finezze e la complessità della vita emozionale.

Nei primati le interconnessioni tra neocorteccia e sistema limbico sono infatti potenziate rispetto ad altre specie, e lo sono immensamente negli esseri umani.
Ciò conferisce ai centri emozionali l’immenso potere di influenzare il funzionamento di tutte le altre zone del cervello, compresi i centri del pensiero.
A sua volta senza l’influenza modulatrice della neocorteccia l’attività del sistema limbico può essere la causa di crisi anormali e incontrollabili di rabbia o di paura.
La normale espressione delle emozioni richiede, quindi, anche il contributo delle aree più evolute del cervello.

Le aree emozionali sono strettamente collegate a tutte le zone della neocorteccia!

Nel momento in cui avvengono le esplosioni emozionali, una parte del sistema limbico detta amigdala, prevale sul resto del cervello imponendo il suo bisogno.

L’AMIGDALA (dal greco “mandorla”) è la parte del sistema limbico specializzata nelle questioni emozionali.

Essa funziona come un archivio della memoria emozionale ed è quindi depositaria del significato stesso degli eventi.
Tutte le passioni dipendono dall’amigdala.
I segnali in entrata provenienti dagli organi di senso consentono all’amigdala di analizzare ogni esperienza, facendone una sorta di “sentinella psicologica”che scandaglia ogni emozione e ogni percezione guidata da domande che hanno radici nella notte dei tempi: “ E’ qualcosa che temo, qualcosa che odio, qualcosa che mi ferisce?”
Se la risposta è affermativa, l’amigdala reagisce immediatamente inviando un messaggio di allerta a tutte le parti del cervello.
Stimola così la secrezione degli ormoni che innescano la reazione di combattimento o fuga, mobilita i centri del movimento e attiva il sistema vascolare, i muscoli e l’intestino.
I sistemi mnemonici corticali vengono riorganizzati con precedenza assoluta per richiamare ogni informazione utile nella situazione di emergenza contingente.

L’estesa rete di connessioni neurali dell’amigdala, le consente, durante un’emergenza emozionale, di “SEQUESTRARE” gran parte del resto del cervello, compresa la mente razionale e di imporle i propri comandi.

Ciò significa che l’amigdala ci spinge all’azione inviando input di emergenza a tutte le parti
principali del cervello, mentre la neocorteccia (più lenta) in possesso di informazioni più complete, elabora un piano di reazione più raffinato.

Altrettanto importante è l’ippocampo il quale svolge la funzione di garantire un ricordo dettagliato del contesto. Ma mentre esso mantiene un ricordo“ordinario”, l’amigdala ne ricorda la valenza emozionale.

- L’amigdala lavora mediante metodo associativo: ciò significa che essa dichiara lo stato di
emergenza nel momento in cui un input chiave viene associato con elementi di una passata
circostanza pericolosa;

- Ciò che viene registrato nell’amigdala è solo un segnale approssimativo e molto rapido.

Altre aree del cervello si adoperano per produrre una risposta correttiva. I lobi prefrontali, un
importante circuito diretto alla neocorteccia, lavorano per smorzare gli impulsi dell’amigdala. In particolare questa funzione è svolta dal lobo prefrontale sinistro. La risposta neocorticale è più lenta rispetto al “sequestro emozionale” perché esige il passaggio dell’input attraverso un maggior numero di circuiti, ma essa è più giudiziosa e ponderata.

Attualmente nel nostro cervello le connessioni che vanno dalle aree corticali all’amigdala sono molto più deboli di quelle che fanno il percorso inverso.
Questo fatto spiegherebbe come mai l’informazione emotiva sconfini facilmente e influenzi il pensiero cosciente, e quest’ultimo invece fatichi a controllare le emozioni.

Mentre l’amigdala spesso funziona come un sistema di emergenza, il lobo prefrontale sinistro sembra far parte del meccanismo cerebrale per “spegnere” le emozioni che disturbano.
L’amigdala propone, il lobo prefrontale dispone.
Nella vita mentale queste connessioni tra corteccia prefrontale e sistema limbico hanno un’importanza fondamentale che va oltre la regolazione delle emozioni.

Esse sono essenziali per guidarci nelle più importanti decisioni della vita.

I sentimenti sono indispensabili nei processi di decisione della mente razionale : essi ci orientano nella giusta direzione.
Gli insegnamenti emozionali impartitici dalla vita inviano segnali che restringono il campo della decisione, eliminando alcune opzioni e mettendone in evidenza altre fin dall’inizio.
In questo modo il cervello emozionale è coinvolto nel ragionamento, proprio come il cervello pensante.

La complementarietà del sistema limbico e della neocorteccia dell’amigdala e dei lobi prefrontali significa che ciascuno di essi è una componente essenziale e a pieno diritto della vita mentale.
Quando questi partner interagiscono bene, l’intelligenza emotiva si sviluppa e altrettanto fanno le capacità intellettuali.
Dobbiamo trovare il giusto equilibrio tra emozione e ragione o, con un’espressione che utilizziamo spesso, l’armonia tra mente e cuore.

La capacità di formare ricordi usando gli stimoli associati alle emozioni, di conservarli a lungo e forse per sempre, e di utilizzarli automaticamente quando si producono di nuovo delle situazioni simili, è una delle più potenti ed efficaci funzioni cerebrali di apprendimento e memoria.
Ma è un lusso che spesso costa caro: infatti di frequente proviamo paure, ansie e inquietudini di cui vorremmo volentieri fare a meno.
L’evoluzione del cervello umano potrebbe però in futuro correggere questo squilibrio.

Per capire meglio le emozioni e come interagiscono con il resto dell’attività mentale, è utile a questo punto cercare di capire i rapporti reciproci tra coscienza ed emozioni e di come la coscienza emerga dal nostro cervello.

Le teorie più recenti di quello che è o non è la coscienza, poggiano tutte sul concetto di“MEMORIA DI LAVORO”.

Questa può essere considerata come uno spazio, o un meccanismo di deposito temporaneo che consente di tenere a mente allo stesso tempo varie informazioni, da paragonare, da opporre, o da mettere comunque in relazione.
E’ circa quella che prima di ora veniva chiamata memoria a breve termine, cioè un deposito temporaneo di informazioni a cui ora si è aggiunto un meccanismo per elaborare i dati depositati (pensare, ragionare).
Da qui l’utilizzo della definizione “memoria di lavoro”.
I depositi temporanei di informazioni sono chiamati “memoria tampone”.
Ogni sistema sensoriale avrebbe almeno una sua memoria tampone che assiste la percezione, consentendo al sistema di paragonare quello che sente o vede ora, con quello che ha sentito o visto un attimo prima.


Ci sono anche memorie tampone associate all’uso del linguaggio, quelle che ci permettono di tenere a mente la prima parte della frase dell’interlocutore, finché abbiamo sentito la fine e possiamo capirne il senso.
Le memorie tampone specializzate lavorano in parallelo e sono indipendenti l’una dall’altra.

Lo spazio di lavoro polivalente consiste in uno spazio dove l’informazione proveniente dalle memorie tampone specializzate sosta temporaneamente, e dove un insieme di funzioni esecutive controllano le operazioni compiute con quella informazione.

Lo spazio di lavoro polivalente può contenere una quantità limitata di informazioni, di qualunque tipo esse siano e, la memoria di lavoro può, per esempio, mettere in relazione l’aspetto, i suoni e gli odori di una cosa e associarla al suo nome.
La materia della memoria di lavoro è quella alla quale pensiamo o badiamo al momento, ma non è solo il prodotto del qui e ora.
Dipende anche da ciò che sappiamo e dalle esperienze compiute in passato (vale a dire dalla memoria a lungo termine).
Ad esempio un qualsiasi stimolo visivo trattenuto nelle memorie tampone visive, deve essere fatto combaciare con i fatti immagazzinati a proposito di esperienze passate con oggetti analoghi.

Quindi la memoria già immagazzinata influenza le successive percezioni sensoriali.

La memoria di lavoro, per concludere, rende possibile il pensiero e il ragionamento di ordine superiore: ad esempio fare calcoli mentali, leggere, risolvere problemi e lavorare in generale.
Queste procedure richiedono non solo una forma di deposito temporaneo, ma anche l’interazione tra l’informazione immagazzinata temporaneamente e il più vasto corpo del sapere immagazzinato a lungo termine.
La parte del cervello che interviene nei processi di memoria di lavoro è la corteccia prefrontale.



Grazie a tutti questi collegamenti l’amigdala può influire sull’informazione contenuta nella memoria di lavoro, sulle percezioni attuali, sulle immagini mentali, quindi su tutti i processi di pensiero di ordine superiore.
Ma ci sono ancora altri canali, indiretti, lungo i quali l’attivazione dell’amigdala fa sentire i propri effetti sull’elaborazione corticale facendo intervenire i SISTEMI CEREBRALI DELL’ECCITAZIONE.

Durante l’eccitazione la maggior parte della corteccia è potenzialmente ipersensibile, ma sono i sistemi che elaborano l’informazione del momento ad esserne maggiormente influenzati. Ciò è necessario per l’attenzione, la percezione, la memoria, la risoluzione dei problemi, l’emozione ecc.

Se non ci fosse questa attivazione non ci accorgeremmo di quello che accade.
Ma questa attivazione deve raggiungere il giusto livello, altrimenti, se è eccessiva diventiamo tesi, ansiosi, improduttivi.

E’ probabile che altre reti emotive abbiano canali propri per interagire con i sistemi di eccitazione.
L’eccitazione si produce per ogni nuovo stimolo, e non solo per gli stimoli emotivi, ma solo questi ultimi riescono a prolungarla perché coinvolgono l’amigdala.
Quindi le reazioni emotive sono di solito accompagnate da un’eccitazione corticale intensa.
Questo spiega perché quando si è emozionati è difficile concentrarsi sulle altre cose e lavorare in maniera efficace.


Ritorniamo ora, dopo tutto il viaggio compiuto nel nostro cervello, di nuovo al mondo delle emozioni per puntualizzarne altri aspetti.
Abbiamo visto che esistono due livelli di emozione: quello conscio e quello inconscio.
Da un punto di vista fisiologico un’emozione sorge prima che l’individuo ne sia conscio.
Nel momento in cui un’emozione si fa strada nella consapevolezza, vuol dire che è stata registrata come tale nella corteccia prefrontale.
La struttura delle connessioni cerebrali comporta che non possiamo assolutamente controllare in quale momento verremo travolti dalle emozioni, né quale emozione ci travolgerà.
Ci sono anche emozioni che vengono provocate attraverso il pensiero.
Ma se non possiamo cambiare facilmente l’emozione specifica che verrà provocata da un certo tipo di pensiero, molto spesso possiamo scegliere cosa pensare.

L’intelligenza emotiva è, secondo alcuni psicologi, un aspetto dell’intelligenza legato alla capacità di riconoscere, valutare e gestire in modo consapevole le proprie e altrui emozioni.

La consapevolezza delle proprie emozioni è un elemento chiave al fine di maturare un'appagante vita sociale fondata sull'interscambio e sulla capacità di comprendere gli stati affettivi, in un rapporto che coinvolge una pluralità di interlocutori.

L'utilizzo di questa forma di intelligenza si fonda sull’abilità di intuire i sentimenti, le aspirazioni e le emozioni delle persone che ci circondano e di avere una piena cognizione del proprio stato d'animo. Questo consente di orientare opportunamente i comportamenti a favore di obiettivi individuali o comuni.

L'autoconsapevolezza delle proprie emozioni è inoltre l'elemento costruttivo essenziale di un altro importantissimo aspetto dell'intelligenza emotiva, ossia la facoltà di liberarsi di uno stato d'animo negativo.


“LE EMOZIONI HANNO RELAZIONI CON L’APPARATO COGNITIVO PERCHE’ SI LASCIANO MODIFICARE DALLA PERSUASIONE” …. Aristotele.


L’individuo sociale rappresenta se stesso sia come un oggetto fra gli altri e sia come iniziatore dei processi della conoscenza e dell’azione. E’ il protagonista che vive ed opera ad un momento dato nella realtà fisica, psicologica, sociale e culturale. Egli è in grado, non solo di conoscere, ma anche di riflettere su se stesso e di prendere l’iniziativa nel contesto in cui è inserito.

L’individuo sociale è quindi quella persona che:

-entra in contatto con la realtà;

-se la rappresenta;

-conosce;

-agisce in modi diversi su di essa;

-nello stesso tempo riflettendo su di essa;

-rappresentandosi i cambiamenti provocati su di sé dall’incontro con la realtà, dalle rappresentazioni di essa, da come si modifica, anche per il suo intervento.


Fu il filosofo William James ad introdurre la nozione di Sé, che consiste nel fatto che il pensiero è continuamente mobile e proiettato sul mondo degli oggetti (esterno), ma allo stesso tempo è sempre di qualcuno, fa parte di una coscienza individuale.

All’interno del Sé bisogna distinguere due componenti:

l’Io, che coincide con il soggetto consapevole, capace di conoscere ed intraprendere iniziative nei confronti della realtà esterna, oltre che di riflettere su di sé;

il Me è quanto del Sé è conosciuto dall’Io, cioè quello che vedo di me, percepisco di me, il modo in cui mi vedo: include le caratteristiche materiali (il corpo così com’è percepito), quelle sociali (come il soggetto si vede nel rapporto con gli altri) e quelle spirituali (il sapersi capace di pensare e riflettere su di sé).

Le relazioni sociali hanno un ruolo importantissimo nella definizione del Sé, e in particolare nella componente del Me sociale, e nello sviluppo della conoscenza di sé e del sentimento della propria identità.

Infatti, la consapevolezza di sé ha origine da come gli altri ci percepiscono e dall’opinione che hanno di noi, cioè da quanto di noi stessi vediamo riflesso dagli altri. È per questo che si parla di Sé rispecchiato

Il sé di un individuo è fortemente influenzato dalle persone con cui quest’ultimo si trova a interagire; per cui spesso il comportamento degli individui è dettato dal desiderio di lasciare un’impressione positiva nella mente di chi viene giudicato importante.

Per Mead la mente è prodotta dall’interazione sociale, che permette di assumere i ruoli e la prospettiva altrui, guardando così se stesso da quel punto di vista.

L’interazione fra l’Io e il Me (riflesso della società) produce il Sé in quanto non potrebbe esistere un’esperienza di sé semplicemente fornita da se stesso, quindi implica sempre la presenza di un altro.


Il Sé è allo stesso tempo soggetto e oggetto dell’esperienza: infatti, quando si parla con se stessi, si elabora un Sé ideale, corrispondente a come l’individuo vorrebbe essere agli occhi propri e del suo mondo.


Il sentimento di efficacia del Sé, che riguarda l’aspettativa che ciascuno di noi ha di essere in grado di affrontare e superare certi compiti deriva dal fatto che, l’attore sociale, si impegna soltanto se pensa di poterlo fare con successo; quanto più si sentirà efficace in un ambito problematico, tanto più si sforzerà di farcela; in caso contrario abbandonerà ben presto l’impegno considerando inutile ogni sforzo.

L’auto-persuasione gioca quindi un ruolo importantissimo nella mediazione tra le “discrepanze del Sé” (come sono, come mi piacerebbe essere, le possibilità che ho di diventarlo); ossia nella gestione delle concezioni ipotetiche di sé che il soggetto percepisce come realizzabili in futuro.


Le impressioni iniziali, dettate in gran parte dall’emotività, sono in grado di attivare un’aspettativa che plasma le interpretazioni delle informazioni successive. Le impressioni iniziali sono lente a cambiare, a meno che non si adottino delle precauzioni, come il riformulare l’impressione ogni qual volta ci si presentino dei dati nuovi.

Quindi una volta formulata una certa ipotesi essa finisce per godere di consistenti vantaggi rispetto alle ipotesi alternative. Ciò avviene perché il processo di raccolta delle informazioni che dovrebbero confermare o smentire l’ipotesi formulata è in qualche modo condizionato dall’ipotesi stessa; essa ha il vantaggio di essere psicologicamente presente, mentre tutte le altre possibili ipotesi non lo sono e richiederebbero quindi un maggior lavoro cognitivo dovendo essere prima formulate e poi sottoposte a verifica.


L’idea alla base di questo concetto è che un’opinione pur essendo falsa, per il solo fatto di essere creduta vera, porta la persona a comportarsi in un modo che fa avverare l’aspettativa. A partire dalla nostra convinzione iniziale su come andranno le cose, noi tutti attuiamo in modo inconsapevole delle azioni che portano a realizzare nei fatti quella profezia.

Questo concetto denominato “profezia auto-avverante” è stato proposto per la prima volta nel 1948 dal sociologo Robert K. Merton che prese spunto da un famoso teorema di W.I. Thomas: “Se gli uomini definiscono certe situazioni come reali, esse sono reali nelle loro conseguenze”.


Questa nozione pone in rilievo la facoltà degli individui di intervenire a plasmare cognitivamente la realtà con le loro idee e le loro concezioni del mondo. Da questo punto di vista la realtà non va intesa come un dato che precede l’azione, ma piuttosto come il risultato finale dell’azione stessa.


Le specifiche modalità di attribuzione di senso agli eventi e le relative strategie comportamentali messe abitualmente in atto dalle persone costituiscono una solida impalcatura: non esiste una realtà oggettiva al di fuori della nostra percezione, o se esiste non possiamo conoscerla se non attraverso il nostro sistema percettivo/reattivo.

Watzlawick in tal senso parla di “realtà inventata”, dove ognuno di noi si crea la propria realtà con un processo di autoinganno inevitabile. La soggettività della percezione porta fatalmente all’autoinganno: se non vedo in modo obiettivo neanche ciò che sta fisicamente davanti a me, ma ciò che voglio vedere in quel momento, a maggior ragione le mie convinzioni, a volte i miei pregiudizi, influenzano l’opinione che mi faccio di una certa cosa, di un evento, di un messaggio.

E allora, dice Watzlawick, se è fatale che io mi autoinganni, posso imparare a farlo in modo utile.

Posso convincermi che il bicchiere mezzo vuoto sia invece mezzo pieno. Apprendere appieno la capacità di motivare me stesso e di persistere nel perseguire un obbiettivo nonostante le frustrazioni. Credere di essere antipatico, oppure convincermi di essere simpatico. In tal modo scatta una profezia che si autoavvera, perché se entro in una stanza convinto di essere simpatico, guarderò tutti con un sorriso, ed essi mi sorrideranno, rinforzando la mia convinzione in un circolo virtuoso.







BIBLIOGRAFIA

ALLPORT G. W., La natura del pregiudizio, La Nuova Italia, Firenze,
1973.
ANDREANI O., Classi sociali, intelligenza e personalità, Il Mulino,
Bologna 1974.
ARCURI L., Conoscenza sociale e processi psicologici, Ed. Il Mulino,
Bologna, 1985.
Joseph LeDoux, IL CERVELLO EMOTIVO alle origini delle emozioni, Baldini Castoldi Editore;
Daniel Goleman, INTELLIGENZA EMOTIVA, Edizioni Rizzoli;
Robert Ornstein e Richard F. Thompson, IL CERVELLO E LE SUE MERAVIGLIE, Bur Edizioni;
Jeffrey Satinover, IL CERVELLO QUANTICO, Macro Edizioni;
Frontiere: il meglio di Scientific American, DAI NEURONI ALLA COSCIENZA l’architettura del cervello, i misteri della mente;
Massimo Soldati, CORPO E CAMBIAMENTO, Edizioni Tecniche Nuove,
“UNIVERSITA’DEGLI STUDI DI TORINO” dipartimento di psicologia LA PROFEZIA CHE SI AUTOAVVERA (A cura di: Fantini Cristina, Metastasio Erika, Racca Carla)